giovedì 22 marzo 2012

BANGKOK DANGEROUS (1999), Oxide Pang Chun, Danny Pang

Thailandia, 1999
Regia: Oxide Pang Chun, Danny Pang
Cast: Pawalit Mongkolpisit, Premsinee Ratanasopha, Patharawarin Timkul, Pisek Intrakanchit
Sceneggiatura: Oxide Pang Chun, Danny Pang


Trama (im)modesta – Kong (Mongkolpisit) è un killer su commissione sordomuto, vive insieme al suo amico che l’ha introdotto al mondo degli hitmen, Jo (Intrakanchit), e di tanto in tanto si reca in un locale di spogliarellisti dove una donna, ex-fidanzata di Jo, di nome Aom (Timkul) comunica incarichi e fornisce pagamenti. Un giorno incontra e si innamora della bella farmacista Fon (Ratanasopha) e tutto sembra andare per il meglio fino a quando Aom viene violentata da uno dei bracci destri del boss di turno e Jo viene ucciso mentre tenta di vendicarla, incastrato dallo stesso boss a cui aveva chiesto aiuto.
Da questo punto, per Kong comincerà una sanguinosissima vendetta contro tutti quanti gli assassini (materiali e non) di Jo. E, parafraso il Bardo, tutto il resto è mattanza.


La mia (im)modesta opinione – Era il lontano 1992 quando Tarantino con Le Iene dimostrava che il gangster movie poteva essere riscattato dall’abisso di infamante e banalizzante popolarità in cui era caduto e poteva essere ancora originale, ancora creativo, ancora vitale. Da quel punto di rottura originario con la tradizione deteriore del gangster movie e poi, in modo molto più clamoroso e definitivo, dal monumento criminale Pulp Fiction, Tarantino e tutti i suoi epigoni (non necessariamente posteriori a lui ma che solo dopo di lui hanno trovata confermata la propria arte) hanno generato intere schiere di criminali violenti, nevrotici, totalmente originali nei modi e nei comportamenti. Questa figura rinnovata del criminale sui generis è stata poi al centro di numerosissime storie a dire il vero spesso piuttosto scontate ma tutte con più o meno merito a seconda del loro valore artistico.


Epigoni non solo di Tarantino ma anche di Kitano e John Woo, si fanno i fratelli Pang in questa sgargiante e pataccosa pellicola del ’99 che sarà oggetto di un tremendo remake all’americana, sempre a opera dei fratelli Pang, con protagonista Nicholas Cage. I padri spirituali del film, dunque, sono Tarantino, Kitano e Woo, quello artistico è uno: il grande Wong Kar Wai.

E il film dei Pang, si vede, è tutto preso nella pedissequa imitazione sia dell’amore dell’immagine di Wong Kar Wai sia della fascinazione per l’ibrido hard-boiled dei vari Tarantino e Kitano. Ma il limite principale di Bangkok Dangerous è proprio questo: tutto preso nella furia di replicare e ricostruire si dimentica di se stesso. Diciamolo pure: i Pang non hanno la nera e ribollente creatività di Tarantino, non hanno il furor malinconico di Kitano, non hanno l’amore per gli anfetaminici dinamismi di Woo e nemmeno per le emicranie cromatiche di Wong Kar Wai.


La loro cinematografia, almeno in questo film, si classifica come manierismo tutto esteriore e vuoto. Una vanità che è sì elemento caratterizzante del genere (in nessuno dei registi sopracitati sono presenti alti contenuti di natura moraleggiante o filosofica, ma solo genuina attitudine estetica e intellettuale) ma non è nemmeno tale da far sprofondare la storia in un abisso di neon, fermo immagine e dissolvenze in rosso.
Oltre agli interessanti titoli di testa con il sangue che si disperdeva colando nelle fughe del pavimento e qualche sequenza visivamente interessante, la struttura stessa del film comincia a collassare su se stessa a partire dall’inizio della trama vera e propria, circa a metà del film. 


Ci si rende conto, cioè, che la trama avrebbe potuto essere snellita o, al contrario, resa più solida (un preambolo tanto grande quanto metà dell’intera pellicola poteva far presupporre una trama veramente grandiosa). Appena la storia si infiacchisce, tutto il fascino estetico svanisce e i neon tornano a essere neon, le dissolvenze in rosso, dissolvenze in rosso e gli effetti cromatici solo effetti cromatici.
Quello che ne risulta è un film-patacca, chiassoso, stracarico, melenso e inutilmente aggressivo ma non privo di un certo fascino estetico, fascino che però fa presto a scomparire. 


Anche Kitano ha sempre usato, per esempio, le suggestioni del racconto eroico e del melodramma (ma dandogli un proprio vigore tutto orientale, virile e, in qualche misura, byroniano) nella sua narrativa ma mai è parso melenso, a differenza del film dei Pang che pare troppo esagerato, rutilante e imperdonabilmente vuoto. Un gioiello falso, dunque, che sembra sopra le righe perché ne è troppo al di sotto, un prodotto scintillante ma non di luce propria. Mi spiace, ma l’hard-boiled è altro.


Se ti è piaciuto guarda anche… - Le Iene e Pulp Fiction (rispettivamente 1992 e 1994) di Quentin Tarantino, perché Tarantino è un grande maestro che ha sintetizzato e coronato un intero genere cinematografico, modernizzandolo e rendendolo godibile e attuale. Léon (1994) di Luc Besson, perché è insieme poetico e muscolare, delicato e taurino. Brother (2000) di Takeshi Kitano, perché è una crime story asciutta ed essenziale, nostalgica come un western e violenta come un noir. Hard Boiled (1992) di John Woo, perché è l’ultimo film del primo e migliore periodo cinese di Woo, prima che si trasferisse negli USA (che gli hanno fatto perdere molto del suo smalto).


Scena cult – Il violento (sia fisicamente che artisticamente) stupro di Aom sul palco del locale a luci rosse da lei usato come punto di incontro con Kong.

Canzone cult – Non pervenuta.

 

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