lunedì 19 marzo 2012

DREAD (2009), Anthony DiBlasi



Regno Unito, 2009
Regia: Anthony DiBlasi
Cast: Jackson Rathbone, Shaun Evans, Hanne Steen, Laura Donnely
Sceneggiatura: Anthony DiBlasi


Trama (im)modesta - Tre studenti di cinematografia senza arte né parte decidono sotto suggerimento dell’inquieto Quaid (Evans), che da bambino ha assistito al massacro della sua famiglia a opera di un maniaco che aveva molto di Mike Myers, di realizzare un documentario sui traumi e i terrori più profondi dei loro coetanei svergognando sia paurosi traumi nascosti sia imbroglioni in cerca di fama. Ma con il passare del tempo la natura sadica di Quaid si rivela sempre più fino a un finale che più tragico proprio non si può.


La mia (im)modesta opinione – Basta poco per farti gelare il sangue nelle vene. Clive Barker (che è autore del racconto su cui è basato il film) lo sa e di sicuro lo sa anche Anthony DiBlasi.
Ci sono molti film che corrono sul bordo della follia senza mai valicarlo veramente, Dread preme sull’acceleratore e ci proietta in un salto folle oltre il guard rail. E la visione è qualcosa di autenticamente destabilizzante. L’horror vero non causa paura causa, come è ovvio, orrore, cioè uno stato emotivo più profondo e subdolo che mescola attrazione (intelletuale e, a volte, estetica) e repulsione (morale). È così che lavora Satana, più o meno. Oltre questa definizione di genere horror esiste ben poco e tutto il resto è solo baraccone chiassoso e villano.


Dread con essenziale e chirurgica precisione ci porta attraverso un disegno arabesco e complesso al cuore pulsante di questa sensazione d’orrore. Alla fine del film si sarà sì folgorati dal finale tagliente come vetro ma si proverà una specie di rivoltamento morale dello stomaco, una repulsione spirituale, un autentico desiderio di luce, buoni sentimenti e felicità.
La regia di DiBiasi è un occhio non imparziale ma capace di farci vedere abiezione e negatività con pochi e scarni dettagli (i capelli lunghi e lerci del killer misterioso, le squallide sale del college, la dimora isolata e tetra di Quaid) e di portare questa atmosfera a momenti di tensione drammatico-orrifica tanto potente da risultare quasi disturbante.
Il film è poi illuminato dal suo superbo cast. Si va da un Jackson Rathbone bello come una divinità nella sfumatura pensosa e malinconica dei suoi occhi verdi (autentica calamita sullo schermo) a una Hanne Steene capace di metamorfosi impensabili fino al potente, bellissimo e sanguinolento nudo integrale di Laura Donnely, vera stella in questa sua parte tanto piccola quanto carica di pathos e spessore psicologico. 


Menzione a Shaun Evans e a quella strepitosa capacità di dare corpo al suo personaggio con tutto il groviglio di rabbia repressa e terrore infantile che si tiene nelle viscere.
Occhio pure alla cantante Paloma Faith che compare brevemente nel film a coronare questa gemma di orrore con la sua bislacca presenza.
Evitate i vari filmoni d’orrore che vi spacciano per paurosi. Il terrore è qualcosa di diverso, e Dread ve lo insegnerà.

Se ti è piaciuto guarda anche… - Che fine ha fatto Baby Jane? (1962) di Robert Aldrich, perché è un film memorabile, che esplora le pieghe segrete della psiche malata, un gioco sinistro giocato da due mostri sacri come Bette Davis e Joan Crawford. Funny Games (2007) di Michael Haneke, perché è un gioco del gatto con il topo di una violenza inesorabile e letale, perché Haneke è un grande autore che non si spaventa ad esplorare la violenza in tutti i suoi aspetti più nascosti. Repulsione (1965) di Roman Polanski, perché c’è la Denevue (che vale tutto il film), perché è la storia di una nevrosi narrata magistralmente, perché Polanski è un grandissimo figo. Audition (1999) di Takeshi Miike, perché è un rimpiattino e cercarello notevole, perché la violenza messa in scena da questo film è disarmante, perché la carta della claustrofobia è una carta abusata ma che funziona sempre.


Scena Cult – Ovviamente il feroce finale che modificherà il concetto di orrore nella mente di ogni spettatore.

Canzone cult – L’ipnotica e, alla lunga, allucinata ‘Fashionably Uninvited’ dei Mellowdrone

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