martedì 10 aprile 2012

BLACK BOOK (2006), Paul Verhoeven


Olanda, 2006
Regia: Paul Verhoeven
Cast: Carice Van Houten, Sebastian Koch, Thom Hoffman, Halina Reijn
Sceneggiatura: Paul Verhoeven, Gerard Soeteman


Trama (im)modesta – Rachel (la divina Van Houten) è una cantante ebrea fuggita da Berlino e rifugiatasi in Olanda. Inseguita dai nazisti, Rachel si rifugia a L’Aia dove unisce le sue forze a un gruppo di partigiani che lottano per cacciare i nazisti fuori dall’Olanda. A questo punto, Rachel assume il nome di Ellis de Vries, si tinge i capelli di un bel biondo ariano ed entra nelle grazie di un militare delle SS tedesco. A questo punto Rachel/Ellis si barcamena fra doppie identità, doppi giochi e tradimenti, si innamora del colonnello nazista e, alla liberazione, viene imprigionata come collaborazionista. Uscita di prigione va alla caccia dei traditori e, scagionatasi del tutto, ricomincia una nuova vita in Israele. Ma la guerra la seguirà anche lì.


La mia (im)modesta opinione – Per definizione, il genere cinematografico del melò è quel genere caratterizzato da tinte forti, una trama romanzesca con colpi di scena, esasperazioni sentimentali, rivelazioni sensazionali tutte atte a commuovere ed emozionare lo spettatore. Questo è il genere in cui rientra alla perfezione questo drammone storico che è Black Book ma, mentre di solito questo genere di film è odioso per gli escamotages scadenti della trama e la valanga di stereotipi che li ricopre, la pellicola di Verhoeven risulta elegante, sontuosa (è il film olandese più costoso di sempre), ben scritta e ben recitata.


Le trovate sono quelle del feuilleton classico: “la lotta per il potere, le sfrenate passioni, gli intrighi, i tradimenti” (sì, sto citando la sigla di Xena che è, in questo caso, singolarmente calzante) con al centro un’eroina indomita e coraggiosa che ha il volto (bello) e il corpo (bellissimo) di Carice Van Houten, il cui ruolo è una specie di incrocio fra la Marlene Dietrich de L’angelo azzurro e Mata Hari, che ci regala una performance coi fiocchi. Inutile dirlo, la Houten è già in lista d’attesa per entrare nel gotha delle mie attrici preferite anche in virtù della sua partecipazione nella seconda meravigliosa stagione dello stupendo Game of Thrones nei (pochi) panni della enigmatica (e promiscua) sacerdotessa Melisandre di Assahi.


 Per quanto riguarda l’intreccio del film, questo è incredibilmente complicato. E questo è un bene. Ci sono fughe precipitose, sparatorie, doppi giochi, imboscate ma tutto è gestito con classe magistrale da Verhoeven che lontano dalla spazzatura pruriginosa di Basic Istinct e Showgirls assume un tono retrò, molto elegante e raffinato per narrare le travagliate vicende dell’Olanda nazista e della sua liberazione (anche se non si risparmia qualche scena un po' osé qui e lì). Vicende che non molti si sono mai presi la briga di narrare. Questo aplomb da parte della regia permette alla trama elefantiaca, esondante e complicatissima di reggere insieme e di non parere solo un romanzetto d’appendice di quarta categoria.


Altro punto forte del film è il gioco sull’ambiguità dei ruoli e dei personaggi. La divisione fra “buoni” e “cattivi” è quanto di più esile e sottile ci possa essere: i partigiani olandesi sono antisemiti al pari dei nazisti, i nazisti appaiono persone ligie alle regole e dotati di una certa umanità (finalmente! Lo stereotipo del nazista sadico e spietato mi stava per dare il voltastomaco) e per tutta la durata del film il ruolo di “buono” e di “cattivo” passerà di mano in mano. Non che il regista non ne sia consapevole: un generale canadese accusa gli olandesi di non essere diversi dai nazisti nelle torture sui prigionieri collaborazionisti.


Questa ambiguità si esplica anche nel sincretismo di generi che vive la pellicola. Si inizia come dramma bellico, poi si profila la love story, in seguito sembra di vedere un film di avventura, infine tutto si chiude sulle note del thriller storico e il finale assume le sfumature amare del film di guerra moderno, quando attesta con sconsolata malinconia che dalla guerra non si può scappare e nemmeno dal proprio destino. Ricordo a questo punto un proverbio yiddish che recita: «Se il destino di un uomo è affogare, lo farà anche in un bicchier d’acqua.» Stesso destino tocca a Rachel che, anche lontana mille miglia dall’Olanda, teatro delle sue sventure, rivive costantemente il dramma dei conflitti armati e delle violenze.


Questo film non ha una morale. Spendo solo due parole per parlare della figura di Ronnie. Quello di Ronnie è un personaggio di contorno che fa profondamente riflettere: donna non bella ma certo furba, cagna per tutti i postriboli, sostenitrice di tutte le bandiere. La vediamo prima come segretaria dei nazisti che si concede ai suoi superiori, si fa palpare e spogliare, il giorno stesso della liberazione è al fianco di un prestante soldato canadese che in seguito sposerà. Insomma, Ronnie è l’esempio di tutti quei personaggi nella storia che sono sempre riusciti a cavalcare la cresta dell’onda semplicemente stando attenti a dove tirava il vento. Ho apprezzato che Verhoeven abbia inserito un personaggio del genere come per ricordarci che, dopo tutto, la Fortuna la si guadagna a prezzo di cinismo.


Se ti è piaciuto guarda anche...Espiazione (2007) di Joe Wright, film più originale che coinvolgente che ha il merito di averci fatto scoprire la prodigiosa Saoirse Ronan. Il da me già recensito La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti, titanico affresco storico e familiare sull’ascesa del nazismo, con reminiscenze di Mann e Wagner. Lussuria (2007) di Ang Lee, altra storia di sesso e guerra, resistenza e innamoramento, diretta dalla mano esperta e sapiente di Ang Lee. Gioco di donna (2004) di John Duigan, altro melò storico su un curioso ménage à trois di cui fa parte la sempre stupenda Charlize Theron che preme così tanto sul tasto del sentimentalismo da meritare almeno un paio di estasiate visioni.


Scena cult – Il termine della vicenda di Rachel, prima dell’amaro finale, che si chiede in riva ad un lago cosa fare con il tesoro che si è ritrovata per le mani alla fine della guerra.

Canzone cult – Due canzoni cult, entrambe cantate dall’ugola d’oro della divina Van Houten: la canzonetta dal sapore retrò Die Fesche Lola e la speranzosa e un po’ commossa Ja, Das Ist Meine.

Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...