giovedì 31 maggio 2012

TRIANGLE (2009), Christopher Smith


Regno Unito, Australia, 2009
Regia: Christopher Smith
Cast: Melissa George, Liam Hemsworth, Rachael Carpani, Michael Dorman, Joshua McIvor
Sceneggiatura: Christopher Smith


Trama (im)modesta – Jess (George) è la giovane madre di un figlio autistico. Una mattina, decide di unirsi ad alcuni suoi amici per una gita in barca a vela. Mentre il gruppo sta navigando, il vento cessa e si vede arrivare una tempesta all’orizzonte. La tempesta si avvicina velocemente e travolge la barca, capovolgendola. Passata la tempesta, i naufraghi vedono avvicinarsi una grande nave da crociera e riescono a salire a bordo. È una nave fantasma degli anni ’30. Completamente vuota eppure perfettamente funzionante, che naviga all’infinto senza punti di riferimento alcuni. All’improvviso entra in scena un assassino mascherato che uccide tutti quanti tranne Jess e, prima di suicidarsi, le annuncia che tutto tornerà come prima. È l’inizio di un incubo.


La mia (im)modesta opinione – Vedendo questo film mi sono venuti alla mente, simultaneamente, La Ballata del Vecchio Marinaio del Coleridge e Il pianeta delle scimmie, grande titolone della fantascienza vintage, classe ’68. Triangle è un film che mescola orrore, sci-fi claustrofobica (Alien e Sunshine vi dicono qualcosa?), situazioni kafkiane e trappole mentali e le strizza alla perfezione in un’ora e quaranta di pellicola che più che essere cinema è dinamite. Va detto, all’inizio non comprendiamo tante cose, tanti piccoli dettagli ma poi, con lo svolgersi del film, vediamo il puzzle ricomporsi e la storia dipanarsi in tutta la sua sconvolgente originalità e, va ammesso, ci ritroviamo a sentirci degli stupidi, dei bambini nelle mani del regista/sceneggiatore che ci rigira come vuole, come se fossimo burattini impotenti e incapaci.


La trovata che sta alla base del film, quella del time loop, è un trucchetto che i prestigiatori della fantascienza d’autore tirano raramente fuori dal cilindro e quando lo fanno si ottengono quasi sempre dei gran bei risultati (vedi Source Code, The Butterfly Effect o Donnie Darko). Giocare con i piani temporali è qualcosa di più che difficile e serve grande abilità non solo per tenere insieme il castello di carte che si viene a creare ma anche per produrre quel preciso effetto di straniamento e confusione che deriva dal confondersi e sovrapporsi dei piani temporali. In Triangle il tempo è così: si frazione, si perde nelle infinite mises en abîme, finisce avviluppato e contorto eppure, alla fine,  la visione d’insieme è spiazzante, potentissima, una sorta di epifania funesta che, va detto, riusciamo a cogliere con un certo anticipo.


La sceneggiatura di Smith tocca vertici di astuzia e acutezza da fare quasi male con la sua bellezza. Il ragionamento è aguzzo, intossicante. Questo film è una sorta di gabbia mentale, una scatola cinese intellettuale. Ambientare la storia su una spettrale nave da crociera, poi, è qualcosa di brillante. Chi mai, vedendo quei corridoi tanto uguali e speculari da far perdere la testa , non ha immaginato di essere in un non-luogo, in un dedalo senza uscita dove ogni angolo è uguale all’altro? E la nave è proprio labirintica, claustrofobica, isolata come la storia che mette in scena. Insomma, un palcoscenico perfetto. Ma Smith è più bravo di così: non solo è la nave a causare inquietudine ma anche le villette a schiera e i prati bagnati dagli irrigatori automatici. Tutto riproduce quella primordiale paura che si ha quando si crede per un attimo di non poter scappare dall’incubo che si sta sognando e quell’inquietudine che ci coglie appena svegli di stare vivendo quell’incubo.


Gli attori sono tutti perfettamente in grado di gestire le loro così travagliate parti. Si parte da Rachel “non so se è bella ma a me piace” Carpani, che è la dimostrazione che non ci sono piccole parti ma solo piccoli attori (diciamocelo, fa solo la scream queen, eppure è bravissima a farlo), al migliore degli odiosi fratelli Hemsworth, Liam (N.d.A. Ma cosa gli danno da mangiare a questi fratelli Hemsworth?), che riesce a distaccarsi dalla figurina di pennellone muscoloso della situazione. Ma la migliore è la stupenda Melissa George, capace di dare alla sua parte una fisicità potentissima e di esplorare tutte le ramificazioni più capillari e ritorte della psiche umana.


Anche la regia di Smith è superba (stupendo il riecheggiare il mito greco di Sisifo, l'uomo che cercò di ingannare la morte e fu condannato a ripetere all'infinito la stessa, faticosissima azione) e non pecco di intellettualismo facile se dico che ho visto quasi dei parallelismi con l’altra opera di Smith, il deludente Black Death, film originalissimo ma che si sprecava in risvolti melodrammatici abbastanza scadenti. In entrambe le opere c’è il desiderio di rigirare la frittata e lasciare a bocca aperta, entrambe le opere finiscono come ad anello, con colpi di coda magistrali e solfurei. Insomma, Triangle mi ha fatto profondamente rivalutare Smith e le sue capacità di regista: recupererò di sicuro il suo Creep e anche il già visto Severance. A questo punto, non posso certo perdermeli.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ho già citato le pietre miliari della spirale temporale: Donnie Darko (2001) di Richard Kelly, 1408 (2007) di Mikael Håfström, Source Code (2011) di Duncan Jones e l’angoscioso The Butterfly Effect (2004) di Eric Bress e J. Mackye Gruber. Ma ll grande classico del cinema che suggeriva vagamente il tema della ciclicità del tempo era Shining (1980) di Stanley Kubrick. L’intrappolamento mentale è presente anche nello stupendo Inception (2010) di Christopher Nolan e negli altri grandi lavori di questo regista ovvero The Prestige (2006) e Memento (2000). Horror simili a Triangle sono il luciferino The Cube (1997) di Vincenzo Natali e il geniale Identità (2003) di James Mangold.


Scena cult – La spiazzante moltiplicazione dei cadaveri sul ponte della nave, invaso da una cinquantina di corpi della stessa persona.

Canzone cult – Non pervenuta.

mercoledì 30 maggio 2012

DRENG (2011), Peter Gantzler


Danimarca, 2011
Regia: Peter Gantzler
Cast: Sebastian Jessen, Marie Louise Wille, Helle Merete Søresen, Peter Gantzler, Mikkel Bjerrum
Sceneggiatura: Peter Gantzler, Iben Gylling


Trama (im)modesta – Christian ha diciotto anni, vive con sua madre, ha appena concluso il liceo e si prepara all’università. Lavora come aiutante del portinaio/factotum del complesso condominiale dove abita facendo piccole riparazioni, tagliando l’erba del prato o pulendo in giro. È così che incontra Sanne, procace mamma single, con cui intreccia una relazione prima semplicemente erotica ma che poi diventa sempre più profonda quando entra in gioco anche il piccolo Kasper, figlio di Sanne. Ma quanto è pronto Christian ad assumersi il peso di una vita adulta?


La mia (im)modesta opinione – Ci sono dei film, come questo Dreng, che iniziano come commedie dolceamare sull’amore contrastato fra due persone di età diverse e finiscono per diventare profonde meditazioni sulla vita, sul mondo delle relazioni e della famiglia e sulla difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo. È immaturo Christian che ha paura di assumersi le responsabilità “dei grandi”,  che piange se abbandonato, che è attaccato alla madre, che è sempre indeciso e inesperto nelle faccende d’amore o è immatura Sanne che, dietro a tutta la superiorità di cui s’investe in quanto adulta, cela la gelosia e la possessività di una ragazzina quindicenne  mescolata con la cattiveria di una bambina maliziosa e perfida?


Come potrebbe Christian affidare il compito di essere traghettato nel mondo degli adulti a una donna che vive selvaggiamente le proprie fregole e le proprie rabbie? Una donna che fa scenate, che rimesta nella vita privata del proprio partner? La verità è che l’affaire fra Christian e Sanne era iniziato come un semplice capriccio del momento e di questo il regista non fa certo mistero. C’è anzi qualcosa di vagamente laido e scorretto nelle indecenti avances di lei, degne del più scadente fra i filmetti porno. La relazione amorosa è incidentale, una trappola per topi che è scattata quando nel ménage della coppia entra a far parte Kasper, il figlio di Sanne, desideroso di avere un padre, attaccato alla madre e in cui forse si rispecchia anche Christian, anche lui orfano di padre, desideroso di diventarne uno per poter smettere di sentire la mancanza del proprio.


È il realismo, in definitiva, che ho apprezzato infinitamente in Dreng. Un realismo che pare una ventata di frescura nell’afoso serraglio della moderna dramedy. Gantzler è un regista encomiabile: non si abbandona a particolari virtuosismi (non che la storia lo richiedesse) e tratteggia con preziosa sensibilità e nitidezza una straordinaria storia ordinaria mettendo in gioco una schiera di personaggi complessi e sfaccettati e narrandone le vicende senza la minima affettazione, senza cercare di far colpo su nessuno, senza animosità o desiderio di svendersi a prezzo popolare. Riesce a fare questo grazie a uno script essenziale e sobrio, un gruppo di protagonisti convincenti e una storia affascinante e calorosa.


Lo abbiamo già detto, punto di forza sono i protagonisti. Iniziamo da Christian, interpretato dal bravissimo Sebastian Jassen (ne approfitto per complimentarmi con i responsabili del casting: finalmente un attore bello ma non belloccio, bravo senza essere pretenzioso, capace di incarnare perfettamente il proprio personaggio), un ragazzo dolcissimo, con tanto amore da dare, inesperto e forse goffo delle dinamiche delle relazioni, spaventato, desideroso di crescere. Un personaggio con cui è impossibile non simpatizzare. Il film non fa del buonismo idiota: è Christian ad essere un personaggio sinceramente buono, autenticamente positivo. E, di questi tempi, ci manca di vedere sullo schermo un personaggio così sincero e, al contempo, così complesso e carico di sfumature che riesca anche ad evitare clichés stupidi e frusti luoghi comuni.


Poi ci sono le due donne: da una parte Sanne, matronale, dai lineamenti barbarici, focosa nell’amore come nell’ira, provocante e vagamente villana, dall’altra Brigit, elegante, slanciata, madre saggia e comprensiva che ama incondizionatamente il figlio. Due figure che, anche con il loro spessore psicologico, non riescono ad eguagliare il personaggio di Christian, ma fungono da espedienti scenici per innescare il processo di crescita interiore di Christian (ma alla fine Christian si ritroverà in mano un pugno di mosche). Lode agli sceneggiatori anche per i personaggi di contorno tratteggiati con grazia infinita anche con due o tre battute e uno sguardo.


In definitiva questo Dreng è un film di eloquenza infinita, prezioso nella sua delicatezza e nella sua semplicità e che riesce a conservare quella caratteristica tanto rara in tutto il cinema odierno: la dolcezza, la dolcezza che se non è assente e dunque si risolve in crudeltà e cattiveria (più o meno) gratuita, è ipersatura al punto da diventare parodia beffarda del sentimento o melensaggine odiosa come succede nel cinema italiano da circa vent’anni. Di questi tempi non ho mai visto un film tanto dolce che evitasse con tanta disinvoltura stereotipi, svenevolezze e languori inutili per arrivare al genuino nucleo di una storia insieme complicatissima come può essere la transizione da giovinezza a maturità e insieme infinitamente semplice.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Sul tema del bildungsroman insolito, abbiamo il singolare L.I.E. (2001) di Michael Cuesta, il meraviglioso L’amante (1992) di Jean-Jacques Annaud e, per la serie “ci sono adolescenze che si innescano a cinquant’anni”, il grande classico del genere è American Beauty (1999) di Sam Mendes. Altri must del genere sono About a Boy (2002) di Chris e Paul Weitz, il supervintage Il diavolo in corpo (1947) di Claude Autant-Lara e lo straniante e stranissimo Afterschool (2008) di Antonio Campos che ha avuto anche il merito di aver fatto debuttare sul grande schermo il meraviglioso Ezra Miller, attore già da tempo assiso nel gotha dei miei cult personali.


Scena cult – Il finale. Non posso illustrarlo, ma racchiude in cinque minuti quello che il film ha detto in un’intera ora e venti e lo arricchisce approfondendo il significato e spingendo l’indagine psicologica fino al fondo dell’animo dei personaggi.

Canzone cult – La maliarda I put a spell on you cantata da Xenia.

lunedì 28 maggio 2012

DELLAMORTE DELLAMORE (1994), Michele Soavi


Italia, Francia, Germania, 1994
Regia: Michele Soavi
Cast: Rupert Everett, Anna Falchi, François Hadji-Lazaro, Mickey Knox
Sceneggiatura: Gianni Romoli


Trama (im)modesta – Francesco Dellamorte (Everett) è il guardiano del cimitero di Buffalora, una città dell’Italia del nord, un cimitero molto speciale dove chi muore torna in vita, entro sette giorni dalla sepoltura. Tra uno zombie ucciso e un altro, Francesco incontra una vedova misteriosa con cui intreccia una relazione erotica subito stroncata dalla di lei morte, a mano del marito geloso riemerso dalla tomba. E fra morti che tornano alla vita, surreali e orridi siparietti a cui provvedono i morti viventi, Francesco comincia a perdere presa sulla realtà e il confine fra morte e vita si fa sempre più labile. Quando poi la Morte in persona gli appare dicendogli che uccidere vivi o uccidere morti è la stessa cosa, il cammino verso la pazzia è inevitabile.


La mia (im)modesta opinione – Le arditezze grafiche e la sperimentalità visiva di un tipico B-movie mescolate alla storia curiosa e alle solfuree sparate di un Tiziano Sclavi non potevano che generare un innesto bislacco, sardonico e insolentemente gustoso come Dellamorte Dellamore. Chiariamoci, non che il becchino Francesco Dellamorte sia una specie di scimmiottatura del detective dell’incubo Dylan Dog, anzi nel franchise di Dylan Dog, l’investigatore e il guardiano dei morti sono buoni amici e in varie occasioni lo stesso Dellamorte viene citato. Francesco Dellamorte è il protagonista del romanzo che fa da soggetto a questo film omonimo.


Si riconoscerà certamente l’impronta di Sclavi nella caratterizzazione delle situazioni e dei personaggi. In tutto il film vibra acuta un’ironia beffarda e tagliente che sposta tutto il film e il suo tritume da horror anni ’80 (con intero pacchetto di musichette balorde, effetti speciali antidiluviani, trama sconnessa e vagabonda in extremis) in una dimensione teatrale e ironica, cioè in quella terra singolare e sconosciuta che è la realtà vissuta da Dellamorte un personaggio che, come si vedrà, crea la stessa vita attorno a se, vive nella propria mente. Impossibile spiegare i fatti della pellicola se non come una vicenda che il bizzarro guardiano dei morti ha vissuto solo sognandola e l’ha sognata solo vivendola. Il cimitero/proscenio, gli altri esseri umani che sono solo comparse compiacenti, le situazioni paradossali e deformate, tutto rimanda all’oniricità della situazione. E se la storia è tutta un sogno, il sognatore è Francesco Dellamorte, attore principale della commedia.


Dellamorte è un personaggio strano. Isolato, visionario, sciupafemmine, bislacco e fascinato dal macabro, questo eccentrico beccamorto è il protagonista della pellicola. Non un protagonista “materiale” ma un protagonista “mentale” perché ciò che il film ci fa vedere è tutto una sorta di inscatolamento della mentalità contorta di Dellamorte, una deformazione della realtà degna da pazzoide oppure uno psicodramma sulla morte e i desideri repressi. Solo così si spiega l’assurdo finale del film che vede i protagonisti trasformarsi in figurine di plastica dentro una boccia di neve. Francesco Dellamorte non è solo nella pellicola, Francesco Dellamorte è la pellicola stessa.


Tutto l’umorismo macabro e vagamente necrofilo (come la vedova misteriosa che non solo si eccita sessualmente visitando un ossario da film della Hammer ma vuole anche consumare un rapporto sessuale sulla stessa tomba del marito), tutte le scorrettissime scenette comiche, erotiche e cruente, tutto quanto l’allure di anomalia e assurdità che inzuppa il film fino al midollo contribuiscono a formare un film che piacerebbe molto a un Tarantino, che scommetto sarebbe capace di girarlo con una perizia ancora maggiore di quella di Soavi, regista ideale perché discepolo dei principi del trash Dario Argento e Joe d’Amato e che con Dellamorte Dellamore ha trovato l’occasione ideale per trasformare le banalità del B-movie in arditezze visive e l’inverosimiglianza dello script in ironica messinscena.


Ma non bisogna togliere a Soavi ciò che è suo. Partendo già da una base più che ottima, è riuscito a plasmare un film stranissimo, curioso e, in verità, assai letterario e quasi teatrale ma tutto questo è un bene. Lo straniamento che proviene dalla visione di questo film contribuisce a trasformarlo in una pellicola sopra le righe, inguaribilmente strampalata zeppa di frasi da antologia e battute da ricordare e di violenza degna del più sapido fra i film d’exploitation. Non si salva solo il finale, che porta a compimento un leggero sfibramento dei cardini portanti della pellicola e confonde lo spettatore essendo troppo apertamente surreale e simbolico (ma simbolico di che), ma per un piccolo neo come questo si può scontare una pellicola così raramente balzana ed estrosa.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Due modelli certi del film sono La donna che visse due volte (1958) di Alfred Hitchcock e il Pet Sematary (1989) di Mary Lambert, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King. Altro horror stralunato è Benvenuti a Zombieland (2009) di Ruben Fleischer come anche Dead & Breakfast (2004) di Matthew Leutwyler e Severance (2006) di Christopher Smith, il regista del deludente Black Death . Il Constantine (2005) di Francis Lawrence è un esempio di horror atipico e gustoso, come anche il disturbantissimo Denti (2007) di Mitchell Lichtenstein. Film simile a Dellamorte Dellamore, visivamente più efficace ma artisticamente inferiore è L’aldilà (1981) di Lucio Fulci.


Scena cult – Due scene su tutte. La prima è il ritorno dal regno dei morti della vedova amante di Dellamorte che vuole nuovamente unirsi a lui, con siffatto scambio di battute  « Ma tu sei morta... e io sono vivo! », « Non ho pregiudizi, amore mio. » La seconda è la scena dell’ospedale con massacro a sangue freddo di una suora, un’infermiera, un medico. Così divertente e violenta che pare una puntata di Happy Tree Friends. 

Canzone cult – Non pervenuta.

domenica 27 maggio 2012

TURN ME ON, DAMMIT! (2011), Jannicke Systad Jacobsen


Norvegia, 2011
Regia: Jannicke Systad Jacobsen
Cast: Helene Bergsholm, Matias Myren, Malin Bjørhovde, Henriette Steenstrup
Sceneggiatura: Jannicke Systad Jacobsen


Trama (im)modesta – Alma è una quindicenne norvegese che vive in un piccolo villaggio non lontano da Oslo. Alma vive la propria appena scoperta sessualità in maniera eccessivamente accesa e questo la porta a chiamare hot lines per signore e a fantasticare a occhi aperti su notti di fuoco con Artur, il belloccio locale, o addirittura di sesso saffico con questa o quell’amica. Una sera ad una festa Artur e lei si ritrovano da soli e Artur tira fuori il suo bischero e “pizzica” la sua coscia. Lei lo dice alle amiche (gelose), lui nega e così Alma finisce per essere considerata una ninfomane e, di conseguenza, diventa una vera e propria paria. La situazione diventa insopportabile, così Alma decide di scappare di casa...


La mia (im)modesta opinione - « I smell sex and candy here », recita la famosa canzone dei Marcy Playground. Sesso e caramelle. L’abbinamento perfetto per descrivere quell’ambiguo miscuglio di rosea e dolce innocenza e conturbante voluttà e inedito desiderio che si prova durante i quindici anni. Alma è così, una ragazza nata nel posto sbagliato (uno squallido paesino di provincia che ricorda non troppo da lontano la lynchiana Twin Peaks) ed è costretta a dover reprimere i propri crescenti desideri carnali di fronte a una società ipocrita e puritana. Questo spiega le divagazioni immaginose a cui la ragazza si abbandona praticamente di continuo. La sua apparente erotomania è più lo sfogo di un desiderio naturale ma da troppo tempo represso.


Turn me on, dammit! è, devo dirlo, un filmetto abbastanza banale, forse anche vagamente scadente. Ha tutto il tono retorico rosato e infiorettato dei film coming-of-age al femminile ma non solo cala questa retorica in una realtà squallida e triste, ma lascia a bocca aperta con delle uscite francamente inaspettate che lasciano lo spettatore sbigottito. Nel film non si lesina sul sesso fra giovani, primi piani di capezzoli e seni, masturbazione e addirittura la nuda erezione di uno dei giovani attori. E il fatto più sconvolgente è che tutta questa trafila di immagini esplicite e grafiche viene gestita come se si trattasse di baci innocenti da filmetto americano stile Bella in rosa. Queste esplosioni di politically incorrect sarebbero potute essere divertenti e, soprattutto, irriverenti, ma senza l'ironia necessarie hanno solo l'effetto di spiazzare lo spettatore e confonderlo (ma forse quello della confusione è un effetto ricercato).


Alma è una protagonista atipica, ma non originale. Una ragazza sincera in un mondo pieno di ipocriti. Immatura, sì, troppo sfrenata nei suoi desideri e nei suoi atteggiamenti, sì, ma non è certo insincera o invidiosa come le sue amiche tanto “perbene” (sì, le virgolette sono intenzionali). La presenza di una protagonista sui generis avrebbe dovuto dare, almeno nelle intenzioni della regista-sceneggiatrice, una patina da commedia indie al proprio film. Non ci riesce. Quello che vediamo noi è una passabile commediola alquanto buonista ma che non si risparmia stoccate pruriginose e irriverenti sul sexual awakening di una giovane ragazza con tutta l'innocente sensualità che ne deriva.


Voto finale del film? Basso. Potrei dire parafrasando il noto luogo comune: « È intelligente ma non si applica. » Ecco un film intelligente nelle sue premesse, basato su spunti brillanti che scivola sonoramente nella banalità. Colpa sia della sceneggiatura, priva di particolari guizzi ironici o sarcastici (mai sentito parlare di Juno?), colpa degli attori che paiono più adatti a un film neorealista che a una commedia per adolescenti, colpa della fotografia che è ottima nel suo essere livida e fredda ma che sembra spiantata in un film del genere che richiederebbe un approccio più leggero e dunque una fotografia più ariosa e non così cupa e cinerea. Insomma, Turn me on, dammit! non è un brutto, è semplicemente sbagliato.


Se ti è piaciuto guarda anche... – La pletora da cui attingere suggerimenti è, in questo caso, più che ricca e variegata. Si va dall’ironia dolcemara di Juno (2007) di Jason Reitman, al goliardico berciare del primo e sommamente tamarro American Pie (1999) di Paul e Chris Weitz; dall’aggraziato An Education (2009) di Lone Scherfig al disturbato Tempesta di ghiaccio (1997) di Ang Lee. E infine, per comprendere il vero dramma dell’erotomania, non c’è che lo scostumato Shame (2011) di Steve McQueen.


 Scena cult – In assoluto la scena dell’incontro ravvicinato fra Artur e Alma. Una delle scene più da “what the hell?” che mi siano mai capitate.

Canzone cult – Varie canzoni nella colonna sonora. Ma nulla da segnalare.

sabato 26 maggio 2012

LA PIANISTA (2001), Michael Haneke


Francia, Austria, 2001
Regia: Michael Haneke
Cast: Isabelle Huppert, Annie Girardot, Benoît Megimel, Susanne Lothar, Udo Samel
Sceneggiatura: Michael Haneke


Trama (im)modesta – Erika è un’insegnante di pianoforte che lavora al conservatorio di Vienna. Al culmine della mezza età, vive ancora con la madre, una donna asfissiante e invadente che controlla ossessivamente la sua vita e si intromette nei suoi affari personali. All’apparenza irreprensibile e castigata, in realtà Erika cova dentro di sé un focolaio nascosto di perversioni inenarrabili. L’incontro con un giovane studente che si innamora di lei sarà l’occasione per l’esplosione dei suoi desideri più nascosti.


La mia (im)modesta opinione – Il bianco. Colore acromatico per eccellenza. Alta luminosità, nessuna tinta. Non tanto l’assenza di colore ma tutte le sfumature dello spettro cromatico che si condensano e azzerano in una singola, vaga tinta. Il bianco è il colore dello spirito moderno in cui tutte le spinte  e le suggestioni storiche, morali e culturali si fanno così vicine che finiscono per annichilirsi a vicenda. Insomma, bianco è più sinonimo di amoralità che di candore e questo Haneke lo sa bene. Il bianco ricorre praticamente in quasi tutti i suoi film. È nei completi dei maniaci torturatori di Funny Games, è nell’arredamento e nelle architetture di Niente da nascondere, è legato alle braccia di bambini che, un domani, diventeranno i nazisti ne Il nastro bianco. Anche ne La Pianista il bianco è una presenza perpetua, ossessiva e quando non è l’abbacinante riverbero di una pista di ghiaccio o del marmo della sala del conservatorio è una luminosità lattea che soffonde praticamente ogni inquadratura.


La pianista è un film sconvolgente, perturbante. Dalla visione di questo film si esce estenuati, febbricitanti, tesi come la corda di un violino o, per meglio dire, di un pianoforte. Non tanto per le taglienti e indecifrabili sottigliezze psicologiche di cui sono imbevuti i suoi personaggi, quanto per il clima di tensione costante derivato da uno svolgimento lento che pare quasi centellinare ogni singola inquadratura. Haneke non vuole sbrigarsi, la sua lentezza è studiata, metodica. È uno strumento di tortura con cui sferza lo spettatore. Ogni minimo indugio è una stilettata dritta al cuore. E l’attesa non si risolve tanto nell’attuazione di un evento quanto nella osservazione forzata delle morbosità e delle perversioni cui ci costringe il regista. L’indugio dell’occhio dell’autore su ciascuna scena, quell’analisi che siamo costretti a fare ci sfibra, ci lascia prostrati, ansimanti e adoranti insieme, perché quello che vediamo con La pianista è una vera e propria opera d’arte totale.


Una sceneggiatura che ha la profondità e lo scavo psicologico di un romanzo d’autore (e il romanzo originale l'ha scritto un premio Nobel), delle interpretazioni che paiono cristallizzate, di adamantina perfezione, una regia che sembra un’operazione chirurgica, lancinante e surgelata come un bisturi. Isabelle Huppert è di una bravura terrificante. Fa diventare di carne e sangue una donna che altrimenti sarebbe esistita solo sulla pellicola o sulla carta stampata. Restituisce con impressionante realismo sia l’algida scorza di Erika, sia la sua polpa crudele e depravata. Vediamo in Erika una donna glaciale, al contempo prigioniera e attrice del proprio ruolo, i cui occhi balenano di sadico desiderio, assistiamo allo sviluppo dei suoi pensieri come se fossero fiori che sbocciano, osserviamo le sue perversioni e le sue devianze mettersi in atto senza pietà, senza censura. Haneke ha la lucidità di un chirurgo o di un assassino nel dissezionare una psicologia, analizzarne minutamente le singole parti e poi darci una visione d’insieme.


Il finale del film è ermetico ma ugualmente destabilizzante. È il trionfo di qualcosa ma di che cosa? Dopo due ore di visione, si esce da questo finale come massacrati, sfiancati, pieni di domande. La pianista è un film che non solo va visto, va anche finemente meditato e che una recensione come questa può solo segnalare ma non veramente afferrare nella sua essenza più intima. Come ogni altro film di Haneke anche questo rappresenta una tappa dello studio sulla crudeltà che il regista si propone di fare. Il quesito posto da questa pellicola è questo: cosa succederebbe se invece di assorbire la devianza in maniera passiva, lenta e inconsapevole ci si buttasse a capofitto, ingollandone avidamente il liquore amaro direttamente dalla sua fonte più pura? La distruzione, è l’unica risposta. Insensata, brutale distruzione.


Se ti è piaciuto guarda anche… -  Due film che mi vengono in mente pensando a La pianista sono immancabilmente il grandioso Che fine ha fatto Baby Jane? (1962) di Robert Aldrich, geniale e cattivissimo dramma da camera, e il più moderno Il cigno nero (2010) di Darren Aronofsky, film bello ma sicuramente meno viscerale e sottile dell’opera di Haneke. Altre profonde analisi sulla crudeltà generata dall’indifferenza ai valori morali sono lo splendido Diario di uno scandalo (2006) di Richard Eyre e Boxing Helena (1993) di Jennifer Chambers Lynch e, per restare nell’ambito del cognome Lynch, è impossibile non citare il Velluto Blu (1986) del grande David Lynch.


Scena cult – La scena del bagno. Definitivo trionfo del sadismo e della cattiveria di Haneke che costringe gli spettatori a un tour de force mentale lentissimo, crudele e vagamente perverso (sempre meno perverso degli hobby serali di Erika).

Canzone cult – Musica classica per questo film. Musica lenta, ponderata, taglientissima. Il pezzo preferito? Il trio per pianoforte,viola e violoncello n. 2 in Mi bemolle maggiore di Schubert.

venerdì 25 maggio 2012

WUTHERING HEIGHTS (2011), Andrea Arnold


Regno Unito, 2011
Regia: Andrea Arnold
Cast: James Howson, Solomon Glave, Shannon Beer, Kaya Scodelario, Lee Shaw, Nichola Burley
Sceneggiatura: Andrea Arnold, Olivia Hetreed


Trama (im)modesta – North Yorkshire, 1771. Heathcliff è un povero ragazzo dalla pelle nera e dalle origini sconosciute adottato dal patriarca della famiglia Earnshaw che intreccia una relazione sentimentale con la propria “sorellastra”, Catherine. Alla morte di Earnshaw, Hindley, erede della proprietà e fratello di Catherine, mosso dal razzismo sottopone Heathcliff alle più pesanti vessazioni. Heathcliff si aggrappa all’amore verso Catherine ma quando lei accetta la proposta di matrimonio del ricco Edgar Linton, scappa via. Passano diversi anni e Heathcliff, diventato misteriosamente ricco, torna a Wuthering Heights per reclamare Catherine e vendicarsi dei suoi oppressori di un tempo.


La mia (im)modesta opinione – Quando un autore cinematografico si approccia a un soggetto non originale, si trova davanti un dilemma: aderire al soggetto originario con precisione o distaccarsene per suggerire una rilettura magari diversa e personale dell’opera? Tutte e due le strade sono pienamente praticabili ma bisogna dire che i migliori risultati sono ottenuti quando l’autore si distacca dal testo a monte per innestare la propria creatività personale sui rami di un’opera letteraria. È proprio a questo genere, dunque, che appartiene il Wuthering Heights di Andrea Arnold: la regista ha preso il romanzo della Brontë e lo ha scarnificato, gli ha strappato di dosso ogni fronzolo letterario, romantico e ogni suggestione gotico/onirica. Ciò che rimane dopo questo scorticamento brutale (ma anche necessario) è un dramma in costume singolare, affascinante e, soprattutto, molto molto realistico.


Iniziamo parlando della brughiera. In Wuthering Heights i personaggi, i loro drammi e le loro psicologie vengono trascinati via dal vento di un feroce panismo che riduce gli umani e le loro pulsioni a puri elementi naturali, non differenti da animali o piante. È la Natura a giganteggiare in questo film, in tutta la sua prepotenza e brutalità. Si potrebbe dire che la Arnold porta la storia originale indietro prima fino alla sua attuale realtà storica e poi ancora più indietro in un mondo galleggiante fatto di orizzonti roridi e brumosi, dove le stagioni sono cicliche, il sesso e la morte, la brama creatrice e la fame di crudeltà si confondono, si mescolano e stridono con prepotenza. Il North Yorkshire della Arnold è una landa malinconica e barbara, le brughiere invase da sterpaglie sono selvagge e stoppose e giacciono sotto un cielo perennemente uggioso e gravido di pioggia e tempeste.


Un panismo naturalistico così appassionato e dettagliato che fa quasi sfigurare Malick e il suo lucreziano The Tree of Life, che al confronto pare più un documentario della National Geographic. E dico questo perché nel film di Malick mancava totalmente la dimensione organica e corporea dei fenomeni e tutta la realtà si sublimava in un torrido vulcano di pura visione e sensazione uditiva. La natura della Arnold è invece pervasiva, crudele, potentissima. Non viene messo in scena nessuno spettacolo naturale ma se Malick cercava la grandezza nelle profondità dello spazio e nei cieli, la Arnold guarda alle piccolezza. E allora vediamo una disturbante galleria di frutta marcia, fiori delicati, animali morti, paludi caligionose, umidi prati, piogge furiose e sentiamo quasi ossessivamente i rumori della natura: versi di animali, il vento. La presenza umana è schiacciata, azzerata da tanta infinitesima immensità.


Ancora una volta in questa Natura non manca un elemento anti-idillico che rende una potenziale digressione bucolica in stile Wordsworth in una visione cruda e ferina della campagna selvaggia. La crudeltà e la crudezza emergono a spezzare quel senso di quiete e galleggiamento che ci danno sia gli orizzonti grigi e brumosi sia i movimenti della telecamera a mano di cui si serve la Arnold. Wuthering Heights non ci risparmia sgozzamenti di capre, cani impiccati, oche dal collo spezzato, conigli morti, scene di pseudo-necrofilia dolci e disturbanti a un tempo che però si sciolgono tutte nel turbinio panista della brughiera. Anche gli esseri umani si comportano da bestie: vivono con la terra e il fango, si accoppiano come bestie sul prato, vengono sepolti nella terra grassa di lumache.


Ma, in tutto questo, dove sono finiti i protagonisti? Non saprei dirlo. La dimensione umana e tratteggiata nei punti essenziali, ma non abbozzata malamente. Semplicemente l’approfondimento psicologico non interessa all’autrice che vuole piuttosto fondere la dimensione umana (e la trama complicata e ritorta del romanzo originale) con quella naturale ed evocare un mondo strano, primigenio dove le tracce di civilizzazione causano quasi disagio, dove il rumore dei cristalli di una lampada è fonte di indicibile disturbo e i cui abitanti sono esseri snervati e molli, figurine inutili  e inette, prive di qualsiasi importanza. Insomma Wuthering Heights è figlio di Cime Tempestose ma come figlio e madre si somigliano molto differenziandosi praticamente dovunque così sono queste due opere. Stesso codice genetico ma impostazione radicalmente diverse.


Qui la dimensione umana è carnale e sanguigna, oltre che civile, e comunque prevale la Natura, la grande Natura. In una scena la telecamera riprende Catherine ma poi la mette fuori fuoco per estasiarsi davanti alla muta danza della polvere dorata nell’aria. Le vicende del romanzo avvengono, sì, ma sono prive di interesse, le passioni umane sono diluite fino allo sfinimento e tutto ciò che nel romanzo c’è di languido e svenevole viene estirpato con sommaria e bruta violenza. Questo pregiudica alquanto la struttura del film stesso, che vede un’azione differita all’infinito e una tragedia che non si consuma mai, senza catarsi, senza scioglimento ma anche senza inizio, eternamente ascritta nel titanico e brutale ciclo delle stagioni e nella paurosa crudezza del clima della brughiera.


Dunque il film procede fra grandiosità liriche e difetti non certo trascurabili. I due protagonisti sono bravi ma paiono castigati e la loro interpretazione risulta insufficiente e manchevole. Lo stupendo personaggio di Heathcliff viene totalmente svuotato della sua carica distruttiva e satanica, Catherine diventa eterea e insensata, così come la trama e la narrazione. Il duo non ha alchimia e la storia è troppo poco interessante così svuotata ma forse era ciò che alla regista interessava. Ma qui pongo una domanda finale: perché scomodare il romanzo della Brontë quando gli obiettivi estetici e cinematografici erano tutti diversi? Perché attingere nomi e situazioni da una storia che risulta (paradossalmente) adulterata proprio perché resa troppo realistica? Non penso lo sapremo mai.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Altre audaci riscritture di romanzi con stravolgimento totale di trama e tematiche avviene in due dei miei film preferiti il Dracula di Bram Stoker (1992) di Francis Ford Coppola, vera pietra miliare del cinema, e lo stupendo A Single Man (2009) di Tom Ford, clamorosa riscrittura del romanzo originale di Isherwood. Per l’estasi naturalistica che pervade ogni angolo della pellicola suggerisco The Tree of Life (2011) di Terrence Malick, epica grandiosa ma qui e lì manierata, Womb (2010) di Benedek Fliegauf, sperticato inno d’amore al mare del Nord, e infine il disturbante e luciferino Antichrist (2009) di Lars Von Trier, che vede la Natura come divinità malevola e crudele incarnata nel corpo di un satanico Eterno Femminino.


Scena cult – Il battesimo di Heathcliff. Che rifiuta di inginocchiarsi ai sacramenti e scappa dalla chiesa ricevendo un diverso battesimo: quello della pioggia battente e furiosa che lo bagna e lo purifica dalle incongruenze di una società sbagliata e scorretta.

Canzone cult – Non pervenuta.

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