martedì 19 giugno 2012

EVIL (2003), Mikael Håfström


Svezia, 2003
Regia: Mikael Håfström
Cast: Andreas Wilson, Henrik Lundström, Gustaf Skarsgård, Linda Zilliacus
Sceneggiatura: Hans Gunnarsson, Mikael Håfström


Trama (im)modesta – Svezia, fine anni ’50. Erik è un ragazzo di sedici anni che cova dentro una profonda rabbia: l’odiosissimo patrigno gli infligge continue punizioni corporali, la madre è delusa per i suoi scarsi risultati scolastici e nessuna scuola vuole ammetterlo per via del suo comportamento violento. Dopo l’ennesima rissa, Erik viene interdetto da tutte le scuola pubbliche svedesi e si ritrova costretto a frequentare un esclusivo collegio maschile. Il posto sembra accogliente e piacevole, lì Erik incontra l’amico intellettuale Pierre e stringe una relazione (clandestina) con la bella inserviente finlandese Marja. Ma presto scopre che anche in un collegio così d’élite dovrà subire insopportabili atti di nonnismo e persecuzione che sfociano nella tortura e nel mobbing.


La mia (im)modesta opinione – Partiamo da Nietzsche. «Il pubblico scambia facilmente colui che pesca nel torbido con colui che attinge dal profondo». Mi spiego meglio. Per tutta la durata del film, Håfström ci fa assistere ai più degradanti e odiosi atti di bullismo. Vere e proprie sevizie, degne di Guantànamo (con beneplacito del governo USA, naturalmente) o di un lager nazista. La perfidia degli studenti più grandi arriva a livelli ineguagliabili, loro stessi sono restii a spingersi tanto oltre nella crudeltà eppure lo fanno per dimostrare di avere il potere. Insomma, per tutta la durata del film assistiamo a punizioni fisiche da parte di un patrigno violento e benpensante, alle angherie di un gruppo di bulli snob (che includono pestaggi violenti, invasione della privacy, torture con acqua bollente e/o gelata, sigari spenti addosso), lezioni di razzismo di professori filonazisti e un protagonista che reprime la sua rabbia fino al punto di non ritorno.


Ora si spiega la frase di Nietzsche. Tutti noi ci saremmo aspettati una contorta conclusione alla Haneke, un gran finale in stile grand-guignol con vendetta superba e crudelissima e invece no. Erik non si vendica fisicamente sui propri aguzzini perché farlo vorrebbe dire essere come loro. Il dubbio fra gli adesso allarmati cinefili sorge spontaneo: Evil è un film buonista? Un film moralista? No. Evil è un film edificante. Edificante ma non certo consolatorio. Ogni spettatore vorrà prendere la faccia antipatica e crudele di Otto Silverheim, capo della congrega (che ha il volto di Gustaf Skarsgård, fratellino minore del più famoso Alexander Skarsgård e straordinariamente somigliante all’Amon Goth di Schindler’s List) e gonfiarlo di pugni fino alla nausea. Ma Erik dimostra che l’impeto della violenza può essere canalizzato e sfogato e utilizzato a fini di vendetta senza restituire pan per focaccia. Insomma Evil è un film che insegna qualcosa, un film con una morale.


Certo, un Haneke avrebbe tirato fuori un film parecchio più interessante. Ma l’algida morbosità di Haneke (che è pure profonda, a suo modo) tende a pescare nel torbido, a rimestare nello scabroso e nell’ossessivo senza dare una vera e propria fine alla parabola che ha iniziato. Evil quella parabola la conclude, riesce ad andare nel profondo (ma della morale pratica umana) senza guadare la palude del morboso. Tutti i conti vengono fatti quadrare da Erik ma né con vendette raffinate né con macchinazioni machiavelliche. Perché dopo aver terminato di vedere il film si capisce che Erik si è comportato da uomo. Ha subìto di tutto e di più, è stato colpito nei pochi affetti che aveva (i suoi torturatori fanno scappare dal collegio il suo amico Pierre e fanno licenziare la cameriera Marja) eppure non reagisce come un animale, reagisce secondo una morale.


Comprendo, a questo punto, la perplessità del cinefilo medio. I film-paternale non sono mai piaciuti a nessuno, è vero, ma la paternale di Evil è l’espressione di una moralità complessa, costruita con il tempo e l’esperienza, una moralità autentica, sfaccettata, un modello difficile e duro da seguire che non prende a prestito da alcuna religione o filosofia ma solo da una ferrea concezione della giustizia. Un altro ragazzo avrebbe picchiato a sangue il patrigno, gonfiato di botte il bullo e aggredito il direttore omertoso. Erik è migliore. Forse migliore di tutti noi. Insomma, il male non si cancella con il male. L’errore va approcciato criticamente e risolto con pazienza (ma non con garbo, vi riserverà delle gustose soddisfazioni) e solo così verrà cancellato in profondo.


Le interpretazioni dei giovani attori sono il coronamento del film. Andreas Wilson, con quella bellezza teutonica e muscolare e quello sguardo glaciale tutto stipato di rabbia inveterata e repressa, stratificata e ustionante come lava fusa è perfetto per il ruolo complesso e difficile di Erik, Henrik Lundström fa un meraviglioso lavoro nel caratterizzare Pierre, l’amico dolce e intellettual-chic di Erik. Gli altri attori sono trascurabili, insomma, nella media. Bella la regia di Håfström anche se troppo schematica e dunque imperfetta ma che si concede qui e lì un paio di tocchi personalistici che non possono che far bene. Così così è la musica e la colonna sonora usate per caratterizzare il pathos e la tristezza di questa o quella scena. Evil è dunque più che un bel film un bell’apologo, una lezione interessante. Artisticamente parlando c’è poco oltre la tecnica perfetta ma da un punto di vista di contenuti l’originalità è alle stelle.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Scuole che sembrano prigioni e studenti ribelli. I titoli non si contano. Iniziamo con il comico St. Trinian’s (2007) di Oliver Parker e Barnaby Thompson, proseguiamo con il diretto ispiratore del film, ovvero il classico supervintage e, a mia opinione, invecchiato non perfettamente Gioventù Bruciata (1955) di Nicholas Ray e andiamo al più surreale e bizzarro Rushmore (1998) di Wes Anderson. Il più introverso Bang Bang You’re Dead (2002) di Guy Ferland e il tutto sommato carino Charlie Bartlett (2007) di Jon Poll. Divertenti analogie con Evil le ho trovate in Mean Girls (2004) di Mark Waters e non si poteva evitare certo la citazione al meraviglioso Napoleon Dynamite (2004) di Jared Hess.


Scena cult – La gelida e brutale minaccia di Erik al suo patrigno. Una sentenza capitale pronunciata con uno sguardo così glaciale da far venire la pelle d’oca.

Canzone cult – L’allegrissima e festosa Stupid Cupid di Connie Francis, in pratica un’estate degli anni ’50 concentrata in una sola canzone.

2 commenti:

  1. ho sempre rimandato di vederlo, fino a che è passato il momento...
    boh, anche dalla tua recensione mi sembra un film potenzialmente interessante ma non fondamentale..

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    Risposte
    1. No, non è fondamentale, solo atipico. Diciamo che se ti senti troppo appesantito dal classico film autoriale/intimistico/intellettuale Evil è una bella alternativa. Nulla di speciale, of course.

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