venerdì 24 agosto 2012

FRANKLYN (2008), Gerald McMorrow


Regno Unito, 2008
Regia: Gerald McMorrow
Cast: Eva Green, Ryan Philippe, Sam Riley, Bernard Hill, James Faulkner
Sceneggiatura: Gerald McMorrow


Trama (im)modesta – Sotto il cielo freddo e piovoso di Londra, si incrociano le storie di tre personaggi: Emilia, turbolenta e spettrale studentessa d’arte, mette in scena una serie di elaborati suicidi per un progetto d’arte e segue sconosciuti per la strada con la sua videocamera, fra questi sconosciuti c’è Milo, malinconico sognatore, abbandonato dalla fidanzata sull’altare, che vagheggia i propri amori dell’infanzia mentre l’anziano David va alla ricerca del figlio perduto, inghiottito non si sa come dai labirinti della grande città. Nel frattempo, in un’altra realtà, nella gotica Meanwhile City, colossale e tenebrosa, stretta nella garrota di mille, improbabili religioni, l’unico ateo della città, il vigilante Preest va alla ricerca del capo di una setta responsabile della morte di una bambina.


La mia (im)modesta opinioneFranklyn è un film strano, stranissimo. Come sarà capitato a chi legge, scorrendo le due righe da me scritte sulla trama, io stesso mi sono trovato interdetto, forse affascinato da un film che si prometteva visionario e cupo in cui teatravano tre dei miei attori preferiti: l’inglesino chic Sam Riley, la fosca sirena Eva Green e l’antica fiamma Ryan Philippe (che noto essere invecchiato maluccio, ma, si sa, per le fole dell’infanzia c’è sempre un posto nel mio personale pantheon). Dopo averlo visto e, mentre lo vedevo, sognato, posso tranquillamente dire che Franklyn è sì un film piccolo, quasi un ninnolo, un pendentucolo ma lavorato con tanta e geniale finezza, girato così meravigliosamente da farlo diventare un cult personale fondamentale e imprescindibile.


È vero, all’inizio non si capisce come le storie di Emilia, David, Milo e Preest possano trovarsi a colludere in un tutto unitario ed è ancora più vero che si arriva a un punto in cui la confusione è grande, enorme ma la regia di McMorrow riesce non solo a non farci mai perdere il filo ma anche ad ammaliarci e legarci così strettamente alla trama che non si bada né alla bizzarria dell’argomento trattato né all’apparente scompagnatura della storia. E poi il colpo di scena piomba addosso come una mannaia e, dopo il colpo di scena, a film terminato, arriva l’illuminazione definitiva e capiamo quanto la sceneggiatura, vergata dalla stessa mano del regista, sia perfettamente geniale e ricordi tanto da vicino per finezza e brillantezza lo stupendo Memento di Nolan o il malioso Il Teorema del Delirio, esordio del grande Aronofsky.


Primo incanto della pellicola: Meanwhile City. Un delirio steampunk di architetture gotiche contorte e senza fine, una mangrovia di contrafforti, guglie, doccioni svettanti che si arrampicano sopra cupole veneziane che emergono dalla nebbia chimica che infesta strade strette e sovraffollate di uomini mascherati, pin-up anni ’50, energumeni goth, ladruncoli tatuati, predicatori in nero. Un’atmosfera da bazar di spettri, una babele titanica e tenebrosa dove convivono le larve culturali delle epoche più disparate, accomunate tutte da un contagio di follia religiosa ed esaltazione fanatica, unico possibile derivato di esistenze opprimenti e condannate a sputar sangue nella polvere delle alte e aguzze torri, svettanti e impietose. Spettacolare è la maniera di tratteggiare con pochissime parole e parche immagini tutta l’atmosfera d’insano carnevale in cui vive, marcia e danza la folle popolazione della Città del Mentre.


Secondo fascino della pellicola: Eva Green e Sam Riley. La prima, lunare e nevrastenica, si occupa della parte “artistica” della pellicola con il lavoro febbrile, la rabbia cocente, i suicidi orchestrati ad arte  e i maliosi e inquietanti video di se stessa e degli estranei che insegue per le vie della città. Il secondo, dolce  e afflitto, che condisce una pellicola già sognante e sopra le righe con l’impeccabile e raffinatissima classe british della sua figura e delle sue movenze, perennemente alla ricerca di spettri dai capelli rossi e di dorati ricordi d’infanzia. Entrambi, Riley e la Green, due attori straordinari, impagabili capaci di dare sangue e lacrime a una sceneggiatura già di per sé tutta persa nella vertigine di audaci cerebralismi  e spericolate girandole di sogno.


Terzo e fondamentale incanto della pellicola: la straordinaria cinematografia. Franklyn non è un grosso kolossal, anzi tira un’aria da film indipendente delle più gustose, ma tutta la parte tecnica della pellicola, dalla colonna sonora (che mescola musiche oniricheggianti a brani più rock) al freddo tenebroso dell’uggiosa fotografia, è preziosa, brillante, geniale. Non parliamo poi dei suicidi dell’Emilia di Eva Green, sontuosamente fotografati con quei rossi densissimi e quei pallidi, necrotici bianchi che culminano con la commovente messa in scena di un quadro del Caravaggio (la stupenda Morte della Vergine del Louvre) in cui la Green fa la parte della Madonna morta, scena che riecheggerà in una visione che il personaggio della Green avrà nell’ospedale quando andrà a trovare l’inserviente Pastor Bone, figura divina in disguise, sempre intento ad appuntare nomi ed eventi sulla sua agendina nera (il libro della Vita?).


Franklyn è in breve un film fondamentale, razionale e geometrico come il miglior Nolan ma con una vena di malinconia e lirismo in più che gli dà un’aria tutta personale, autoriale di atrabile e inguaribile malinconia. Un film dal messaggio potente e il cui messaggio preferisco non riferire perché, essendo troppo legato agli sviluppi della congegnosa trama, rivelerei tutto. Dirò solo che Franklyn è un film sulle illusioni e sui sogni, sui fantasmi del desiderio e sulle lisergìe della ragione pura, un film che ci dimostra che carne e visione sono la stessa cosa, che favole e spettri camminano accanto a noi sulla strada e che ogni verità, prima di prendere corpo, viene sragionata, delirata e sognata fino a che la colossale larva del Fato, immane e invisibile, mette a posto ogni pedina ma senza dimenticare che noi siamo sia il burattino che s’illude di non essere il burattinaio. Da vedere immancabilmente.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Immancabili compagni di Franklyn sono, senza dubbio alcuno, Paprika (2006) di Satoshi Kon, lo spettacolare The Cell (2000) di Tarsem Singh, Stati di allucinazione (1980) del mitico Ken Russell, il grandissimo Blade Runner (1982) di Ridley Scott e Il labirinto del Fauno (2006) di Guillermo del Toro. Altri film visionari sono The Fall (2006) sempre del visionario Tarsem Singh, lo stracult eXistenZ (1999) di David Cronenberg, Moon (2009) di Duncan Jones, Enter the Void (2009) di Gaspar Noé e Dark City (1998) di Alex Proyas.


Scena cult – Il primo suicidio di Emilia e la ricomposizione del quadro di Caravaggio.

Canzone cult – Non c’è una canzone vera e propria ma è impossibile non rimanere colpiti dalla musica che commenta il secondo suicidio di Emilia, preceduto da una danza scatenata di Eva Green davanti a una telecamera. 

6 commenti:

  1. l'avevo visto parecchio tempo fa. al di là delle bellezza estetica, mi era sembrato però troppo pasticciato...

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    1. Pare pasticciato, in realtà i legami sono solo assai fini. In ogni caso sono rimasto convinto!

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  2. Siamo tra i pochi ad avere visto questo bellissimo film: hai ragione, col tempo diventerà un piccolo 'cult'! Fantascienza 'adulta', suspance fino alla fine, gran lavoro sui personaggi. Film visionario e avvolgente, sottilmente romantico: stupendo il doppio ruolo di Eva Green, donna perversamente autodistruttiva e 'ragazza dei sogni' che ti invita ad evadere e sognare... da vedere e rivedere!
    Complimenti per il blog... ti seguirò.

    Kelvin
    www.solaris-film.blogspot.it

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