venerdì 30 novembre 2012

LA CASA DEI MILLE CORPI (2003), Rob Zombie


USA, 2003
Regia: Rob Zombie
Cast: Sid Haig, Bill Moseley, Sheri Moon Zombie, Karen Black, Rainn Wilson, Erin Daniels
Sceneggiatura: Rob Zombie


Trama (im)modesta – Anni ’70. La notte di Halloween, un gruppo di ragazzi in cerca di luoghi bizzarri da inserire in una guida sulle attrazioni da strada d’America. I giovani s’imbattono nel Museo dei Mostri e dei Malati di Mente, una specie di casa degli orrori di quart’ordine gestita dall’allucinatissimo clown Captain Spaulding che racconta loro la storia del Dottor Satana, serial killer del luogo linciato anni prima, il cui cadavere è misteriosamente scomparso. Andando alla ricerca del luogo di sepoltura dell’assassino i ragazzi finirà nelle mani della famiglia Firefly, focolare domestico di sadici bifolchi assassini.


La mia (im)modesta opinione – Iniziamo con un dato personale: ho adorato La casa dei mille corpi. Il film pare diretto apposta per me: ipercitazionismo, bizzarria virata agli estremi, barocchismi contorti; e il tutto sposato a un perverso senso del gioco, a un’ironia deviata, a una furia inedita e abbastanza tenebrosa. Parlando del lato più strettamente cinematografico, il film di Rob Zombie è diventato un classico dell’horror moderno, l’imprescindibile pietra miliare di un genere che, ormai, bazzica cattive strade. La casa dei mille corpi è un film del tutto folle, un delirio di onanismo cinematografico a cui il regista/autore si abbandona in nequizia e che si brucia tutto nell’ansia di accumulare stimoli e rimandi, senza però risultare mai troppo pesante o grezzo, tranne nei giustificatissimi exploit finali.


Come tutte le opere profondamente narcisistiche, il film di Zombie è un horror di livello eccelso: non solo stravolge con inatteso acume tutti gli stereotipi del genere (i protagonisti sono gli assassini, non le vittime, relegate qui a un ruolo che non esiterei a definire marginale) ma gonfia il cadavere di un horror ormai morto e sepolto con le nuove linfe di esorbitanze e strafori d’ogni genere. Le improbabili mises di Baby e Mama (personaggi supercult: una, Sheri Moon, vera signora dell’horror; l’altra, Karen Black, impagabile caratterista), i framezzi insensati di antichi filmini erotici, la curatissima colonna sonora, tutto contribuisce ad aumentare lo straniamento, il disturbo, il disagio. Dirò di più: è ne La casa dei mille corpi che confluiscono tutte le suggestioni del genere alla luce di un onirismo scalmanato e furioso.


La sensazione, durante la visione, è quella di stare guardando uno di quei VHS riesumati dal sepolcro d’una videoteca. Le citazioni non si contano: Hitchcock (specialmente a Psycho e a La donna che visse due volte), Fulci (i morti viventi e le grotte sotterranee sono praticamente rubate a L’Aldilà), Jodorowsky (la processione al cimitero riprende Santa Sangre),  il Non aprite quella porta di Hooper, i film di Wes Craven e s’arriva persino alle derive moderne del genere dell’orrore con i rimandi al body horror di David Cronenberg e al recentissimo J-Horror. Rob Zombie è u.n bambino goloso che impasta in bocca tutti i manicaretti su cui sa allungare le mani: e si diverte un mondo. È proprio la passione con cui il film è diretto, la sua capacità di essere violento senza essere un mattatoio alla Saw che qualificano questa pellicola a cult del genere.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente tutti i film sopra citati con l’aggiunta degli altri film di Zombie, ovvero il sequel La casa del diavolo (2005) e, sorvolando sulla parentesi del remake di Halloween, il promettentissimo Lords of Salem (2013). Si consigliano poi i belli ma scolastici The House of the Devil (2009) e The Innkeepers (2011) di Ti West. Fra i grandi classici citiamo Le colline hanno gli occhi (1977) di Wes Craven, Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper, L’aldilà (1981) di Lucio Fulci, l'australiano The Loved Ones (2009) di Sean Byrne e il grande Two Thousand Maniacs! (1964) di Herschell Gordon Lewis.


Scena cult – Il balletto delirante di Baby Firefly e il rogo funebre al cimitero.

Canzone cult – L’ossessionante I Wanna Be Loved By You di Helen Kane.

lunedì 26 novembre 2012

CONSTANTINE (2005), Francis Lawrence


USA, 2005
Regia: Francis Lawrence
Cast: Keanu Reeves, Rachel Weisz, Shia LaBeouf, Tilda Swinton, Djimon Hounsou, Peter Stormare
Sceneggiatura: Kevin Brodbin, Frank Cappello


Trama (im)modesta – John Constantine è un uomo che, per colpa delle doti di sensitive che gli permettono di vedere angeli e demoni nascosti sulla terra, si è suicidato da ragazzo. Dopo essere rimasto clinicamente morto per due minuti, è stato però rianimato; ma in quei due minuti John è finito all’inferno in quanto suicida. Dopo aver visto l’inferno e il diavolo, sapendo di essere condannato alla dannazione, Constantine dedica alla sua vita la deportazione dei demoni che vivono sulla terra, nella speranza di riguadagnarsi il paradiso. Ma quando una sensitiva si suicida, gettandosi dal grattacielo, John capisce che qualcosa di più oscuro si nasconde dietro una morte accidentale. Aiutato dalla gemella della suicida, poliziotta, l’esorcista scoprirà le fila di un complotto che mira a portare nel mondo l’Anticristo...


La mia (im)modesta opinione – Checché se ne dica, difenderò sempre a spada tratta Constantine dai suoi detrattori. E non solo perché il film è uno dei cult fondamentali della mia infanzia di cinefilo, ma anche perché proprio dove la pellicola di Lawrence viene accusata, si nascondono i suoi veri punti di forza. Constantine, si dice, è un film iper-sperimentalista, il frutto un po’ sciancato di un’ibridazione sconsiderata fra noir, horror, film d’azione e thriller soprannaturale. Si accusa il film di megalomania, sciocchezza, arroganza. Eppure il film, a mio avviso, mantiene una trama forte. Non cerca di spaventare, questo è evidente; e se quello di Lawrence viene definito polpettone non oso immaginare come possano essere definiti altri film più quotati agli occhi della critica ma nemmeno lontanamente entusiasmanti e svelti come questo.


Il pregio maggiore del film è lo script. Una storia che rispetta i canoni del noir classico, aggiungendo un fattore inedito – il soprannaturale ora demoniaco, ora angelico – regolato anch’esso da regole ferree e coerenti. Sono geniali i demoni formati da insetti, le pupille luminose dei Sangue Misto, le mille trovate di una sceneggiatura rapida ma salda che, sì vanno decisamente contro il fumetto originale (nel fumetto infatti Constantine è biondo, inglese e il suo ruolo è diverso da quello di cacciatore di demoni), ma ne rielaborano la storia in maniera originale e soprattutto elegante senza mai scadere nel cattivo gusto ma proponendo soluzioni convincenti e a volte argute. Le idee dell’inferno come “mondo dietro il mondo”, dell’underground urbano di demoni e angeli mascherati, della scommessa fra Dio e Satana sono trucchi brillanti e raramente visti e gestiti a dovere.


Francis Lawrence riempie poi la pellicola di un’estetica videoclippara non da poco e sebbene siano presenti un paio di errori di pura natura tecnica (si vede in un’occasione un tecnico riflesso nell’acqua, i cadaveri cambiano posizione, vestiti strappati che tornano normali e via dicendo) la grafica del film è da considerarsi iconica: lo stazzonato completo bianco e nero di Keanu Reeves, l’Inferno post-bellico, gli incantesimi sbrigati senza robaccia paranormale, gli esorcismi e un sacco di scene e situazioni che fanno di Constantine un cult personale assoluto. Per non parlare poi del cameo del controversissimo personaggio di Domino Harvey (che vedete in foto qui sotto), morta poco dopo le riprese, che interpreta un angelo lesbico nel club di Papa Midnite.


Il film è poi un concentrato di scene cult. Dal prete con poteri paranormali, alla discoteca per angeli e demoni gestita dallo stregone Midnite, dallo stupendo arcangelo Gabriele, interpretato dall’androgina Tilda Swinton, al geniale e sulfureo Lucifero di Peter Stormare (un villain da ricordare decisamente), il film fa di ogni scena una lotta per la sorpresa, per l’acume, per l’irriverenza. Ancora degna di lode è la sceneggiatura del film, capace di istituire una propria mitologia personale degna dei migliori instant cult con gli angeli e i demoni dalle pupille luminose alle insospettabili morti demoniache. Che poi Lawrence osi sia perso nei suoi film successivi, ovvero l’alquanto sciapo Io sono leggenda e il pessimo seppur stiloso Come acqua per gli elefanti e cosa nota a tutti, ma va detto a suo merito che il suo esordio è stato folgorante e non merita tutte le critiche che ha ricevuto.


Unici problemi del film sono certamente la recitazione un po' legnosa di Keanu Reeves, decisamente imbalsamato come sempre, e un paio di uscite che il regista lascia ingiustificate anche se sarebbero state degne di un miglior chiarimento. Ma i gadget alla “James Bond vs. L’esorcista”, i ruoli dei personaggi affatto ben chiariti e alcune fra quelle domande di tipo strutturale che sovvengono durante la visione di un po’ tutti i film d’azione, non fanno perdere al film nemmeno un briciolo del suo gusto. Un gusto, va detto, forse pacchiano ed eccessivo ma che risulta il migliore in mezzo agli insipidi piatti che la Hollywood di oggi ci scodella ancora freddini nel piatto.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Versione comica di Constantine è l’altrettanto discusso film Dogma (1999) di Kevin Smith, mentre per horror demoniaci più maturi c’è il recente e, a suo modo, delicato The Exorcism of Emily Rose (2005) di Scott Derrickson. Pregevole lavoro di estetica filmica mescolato al tema dell’occulto è il recentissimo The Lords of Salem (2012) di Rob Zombie, ma se si vuole tornare più indietro nel tempo abbiamo un altro stracult, sempre con Keanu Reeves, ovvero L’avvocato del diavolo (1997) di Taylor Hackford e un film di nicchia degno di reverenza e adorazione ovvero il grandissimo Angel Heart (1978) di Alan Parker.


Scena cult – Fra le tantissime, direi la morte di padre Hennessy, il locale di Papa Midnite e l’incontro con lo stupendo Lucifero di Peter Stormare, mio attore di culto fin dai tempi più remoti.

Canzone cult – Ma ovviamente la Passive dei Perfect Circle.

lunedì 19 novembre 2012

AUDITION (1999), Takashi Miike


Giappone, 1999
Regia: Takashi Miike
Cast: Ryo Ishibashi, Eihi Shiina, Tetsu Sawaki, Jun Kunimura
Sceneggiatura: Daisuke Tengan


Trama (im)modesta – Shigeharu Ayoama è un vedovo di mezz’età che vive con il figlio adolescente. È proprio suo figlio a spingerlo a cercare una nuova relazione stabile, una nuova donna con cui passare il resto dei propri giorni. Ma Shigeharu non si accontenta del caso: lui vuole scegliere con meditazione, dopo aver saggiamente ponderato. Un suo amico che lavora nello spettacolo, dunque, gli propone di indire un’audizione per un film che non esisterà mai, cosicché lui avrà la possibilità di esaminare per bene ogni pretendente e scegliere quella che più gli aggrada. Fra le tante ragazze piacenti, al concorso si presenta la diafana Asami, ragazza dolce e remissiva ma dal passato oscuro. I due, prevedibilmente, s’innamoreranno ma quando la vera natura di Asami uscirà allo scoperto, le cose peggioreranno per tutti.


La mia (im)modesta opinione Audition di Takashi Miike è uno di quei film che fanno la storia. Uno di quegli instant cult che rimane fissato fin dalla sua prima uscita nella mente dello spettatore e che si ripropone, riappare sempre, è ogni volta presenta. Audition è un film che fa ancora discutere non solo per complessità di temi e strutture narrative, ma anche per eleganza e stile registico, che in questo film si esprimono alla perfezione. Non ho la preparazione sufficiente per affermare che Audition sia il film più maturo di Takashi Miike, non conoscendo io bene la sterminata produzione del regista; ma, fra quelli che ho visto è, più che il più bello, sicuramente il più strano.


Per analizzare i significati e le allegorie del film sarebbero necessari più di questi pochi paragrafi. Diremo che, sommariamente parlando, il film è una complicata analisi della solitudine, di come questa defluisca nella disperazione e, infine, nell’alienazione. E dall’alienazione alla crudeltà il passo è molto breve. I due protagonisti del film si caratterizzano per il loro bisogno di amare e per la devianza che questo bisogno imprime al corso dei loro pensieri: se Shigeharu decide di scegliere il proprio amore futuro come si farebbe con un capo di bestiame, Asami piomba giù dritta fino al nucleo di segreta malattia di cui la solitudine è il dolceamaro involucro.


Aperto il sacrario, la solitudine di Asami è un vuoto devastante, capace di comunicare con l’Altro con lo strumento più basico che conosce: la carne. Nella scena-cardine del film, che lo divide idealmente a metà e segna il punto di non ritorno della relazione fra i due protagonisti, Asami attira prima l’attenzione dell’Altro con il corpo, poi, quando lo vede finalmente arreso, ha il coraggio di chiedere ciò che vuole: amore, amore eterno. Ma come il sentimento positivo si riflette solo nell’atto carnale, così quello negativo (la frustrazione, la rinnovata solitudine, il senso di sconfitta) esita in una tortura sanguinaria e crudele che dimostra quasi matematicamente come l’Io alienato riconosca l’Altro solo come strumento, riflesso di sé. Ed è proprio il bisogno di contatto estremo che trasforma il bisogno d’amore in insensibilità e crudeltà.


Oltre a questa rapida esegesi a volo d’aquila, basti sapere del film che trova la sua forza nelle sequenze di tipo onirico-memoriale, incredibile virtuoso di abilità drammaturgica e registica. Quello che abbiamo davanti è la perfetta trasposizione filmica di quello che in letteratura è noto come “flusso di coscienza”. Senza apparente punteggiatura cronologica e narrativa, vediamo le due menti dei protagonisti intrecciarsi e sfogare in un’unica, devastante crudeltà. Questo è l’amore per Audition: l’unione di memorie personali e condivise che raramente è puro e quasi mai disinteressato. Tutta una sequenza che, con scene diverse, sarebbe stata una perla di romanticismo e psicologia, diventa inquietante e perversa tramite le memorie e le fantasie di Asami.


Audition non è solo un film di densi contenuti ma anche e soprattutto un saggio di perfezione registica alternativa (dico così perché gli altri registi ci fanno vedere dall’esterno, in Audition vediamo da dentro) e una prova di incredibile capacità di controllare la grammatica registica e cinematografica che porta alla creazione di un film alleggerito da ogni bastardaggine e filosoficamente complesso ma che riesce incredibilmente a condensare con tanta bravura messaggi e significati da consentire anche a scene estrapolate dal loro contesto di avere un significato a sé, tutto proprio e soprattutto molto cangiante.


Se ti è piaciuto guarda anche...Audition si iscrive idealmente nella trilogia giapponese sull’alienazione della società, che affratella il film di Miike all’importante ma un po’ goffo Battle Royale (2000) di Kinji Fukasaku e al disturbantissimo Suicide Club (2001) di Shion Sono. Altri tre film concettualmente vicini ad Audition sono il cult American Psycho (2000) di Mary Harron, lo stupendo dramma Diario di uno Scandalo (2006) di Richard Eyre e il diabolico Funny Games U.S. (2007) di Michael Haneke. Sebbene inferiore a livello cinematografico, consiglio moltissimo anche l’horror psicologico Deadgirl (2008) di Marcel Sarmiento e Gadi Harel.


Scena cult – Oltre al monolitico incipit, segnaliamo la scena horror dello “schiavo” di Asami, la decapitazione col filo e gli ultimi venti minuti da antologia.

Canzone cult – Non pervenuta. Ma ricordiamo in questa sede il video dei My Chemical Romance Honey, This Mirror Isn't Big Enough... che ricostruisce tutte le scene salienti del film.

mercoledì 14 novembre 2012

Intervista di Aleja B. a Rumplestils Kin.

La brillante collega Aleja B. (signora e padrona di Unlock Your Creativity) ha concesso all'autore di questo magro fogliettino cinematografico l'immeritato onore di un'intervista. Poche domande, non immaginatevi chissà che; ma, se foste mai interessati a quello che il sottoscritto, Rumplestils Kin, povero imbrattacarte (virtuali), ha voluto dire trovate la mia intervista a questo link.

sabato 10 novembre 2012

ANTICHRIST (2009), Lars von Trier


Danimarca, Germania, Francia, Svezia, Italia, Polonia, 2009
Regia: Lars von Trier
Cast: Willem Dafoe, Charlotte Gainsbourg
Sceneggiatura: Lars von Trier


Trama (im)modesta – Una coppia, troppo distratta da un passionale e poderoso incontro d’amore (chiamiamolo pure così), lascia che il figlioletto, incuriosito da una finestra aperta, cada senza che nessuno se ne accorga verso la sua orribile fine. Vedendo che la moglie è caduta in uno stato depressivo senza eguali, il marito, che è anche psicanalista, decide di portarla in una remota capanna nel bosco di Eden per farle affrontare le sue paure e fobie. Ma, in un crescendo di rivelazioni sconcertanti, deliri e onirismi sfrenati, la permanenza dei due nella capanna fra i boschi assume contorni sempre più orrifici, fino al tragico e pauroso finale.


La mia (im)modesta opinione – Già regista di immenso talento, sebbene con un debole forse eccessivo per iperboli ed esagerazioni, Lars von Trier grazie a questo Antichrist nel 2009 e al suo successivo Melancholia, è entrato a far parte (e a buon diritto) degli annali del grande cinema. Dico così non perché i precedenti film fossero di una tacca inferiori (ma forse sono pure superiori) ma perché dopo questi due lungometraggi, il cineasta danese ha stabilito un canone: nessun film di fantascienza che aspiri a un certo lirismo potrà prescindere dalla lezione di Melancholia, nessun horror che voglia celare dietro di sé significati nascosti e profondi potrà fare a meno di confrontarsi con Antichrist.


Antichrist è un film sconcertante. C’è chi lo vilipende, c’è chi lo osanna, c’è chi ne afferma la qualità ma, in definitiva, lo cassa con molta nonchalanche. Stranamente Antichrist è indifferente a tutto ciò. La critica non può gettar luci negative o positive che siano sulla pellicola di von Trier per il semplice fatto che questo film precede le critiche, le ingloba. L’operazione che von Trier ha messo in atto qui non è la produzione di un film qualunque ma di una sorta di complicatissimo onanismo cinematografico. Antichrist è stato scritto e diretto da von Trier a uso e consumo di sé medesimo; la presenza di un pubblico è calcolabile, ma indifferente. E il film sta là: titanico, stranamente magnifico, grottesco in certi punti, orrendo in altri. Le nostre parole sono solo il ronzio di una mosca che fa da sottofondo a von Trier che parla e accarezza se stesso.


Se Melancholia può a buon diritto essere considerato un poema lucreziano riguardo un’umanità che forse merita la propria apocalisse, Antichrist è una sorta di teogonia lirica, intimistica. Un horror metafisico, filosofico, che del genere dell’orrore assume registri e stilemi per cantare di una genesi nuova, illuminata delle oscure derive di Satana; un nuovo Eden dove le armonie si sbriciolano in nome di un Conflitto la cui natura è cosmica e che pervade l’universo tutto intero, dai formicai alle costellazioni. La Natura è madre e vampira di dolore e morte, i suoi messi sono animali spettrali e feroci: un corvo redivivo, una cerva caudata di feto morto, una volpe spettrale e feroce che annuncia il restaurato regno del caos.


La Natura è la chiesa di Satana, dunque, (una Natura tremenda e selvaggia, vera orgia di bestie feroci, putrefazione, immondi aborti e tremende catene alimentari) e ha maggiore espressione in un diabolico Eterno Femminino, incarnato da una donna che è madre e aguzzina, divisa fra la crudeltà della sua natura (von Trier, si sa, è un tipo piuttosto misogino) e la sua innegabile umanità, che si rivela essere l’altra faccia di una stessa moneta; e nella sessualità, intesa come simbolo per eccellenza dell’atto generativo e creativo puro, qui strumentalizzata da un’Eva satanica che evira, mutila quasi fagocita dentro di sé, per tramite del sesso, la volontà e la forza di un uomo schiavizzato, inutilmente sottoposto alle volontà di una donna/Satana dalle voglie omicide.


È infine la voce della Natura stessa, attraverso i tre profetici mendicanti, che aiuta l’uomo a liberarsi dalle pastoie a cui il perverso sesso femminile lo costringe e a vegliarne la fuga; senza però poterlo salvare quando la natura del male, mescolata all’umanità di un’orda di donne senza volto, lo stringe e uccide. Dunque la rivelazione: Dolore, Ansia e Disperazione sono, proprio come annunciato all’inizio del film dall’uomo fiducioso, elementi necessari, quasi concreti, addirittura salutari che non vanno respinti ma positivamente integrati. Ma anche qui von Trier non ci nasconde l’ombra del ragionevole dubbio, nel momento in cui l’uomo ha le sue visioni dei Tre Mendicanti.


Elogio infine alla scelta della foresta (luogo iniziatico per eccellenza) per l’ambientazione del film. Le foreste della Westfalia del Nord diventano luoghi spettrali e foschi, straziate dai pianti di tutte le cose che sono destinate a morire; luoghi di livore e gelo dove il buio arriva presto e la Natura ci viene mostrata da von Trier in tutta la sua pletora di orrori: feti di animali morti ora assediati dalle formiche ora ancora penzoli dal ventre delle madri, volpi putrefatte, livide nebbie, battaglioni di disgustose zecche. Un luogo di cannibalismo e ferocia dove le convenzioni del mondo crollano e l’uomo e la donna possono guardare a se stessi e al mondo in una prospettiva di folle lucidità, una prospettiva sanguinosa, tremenda, ferale, perfettamente incarnata dalla cruenta strega tutta tendini e ossa di un’invasatissima Charlotte Gainsbourg.


Questo, in poche e confuse parole, è il film. Malsano, disturbante, malioso, infernale; tutto viene preso da von Trier e rielaborato dentro una personalissima, misticheggiante teologia del Male condita con audacie autoriali senza precedenti e michelangiolesche visioni di corpi nudi e potenti, che incarnano l’atto naturale in tutta la sua primordiale violenza. Un film alessandrino, Antichrist, un film simbolista, quasi decadente; un film sarebbe piaciuto a Bergman, Baudelaire, Eliot, Liszt, Schopenauer... raffinato fino allo spasimo, ipercolto; convulso nell’epilessia del montaggio, fatto nodoso dalle contorsioni di un pensiero bacato dalla depressione e dalle usuali ossessioni, Antichrist è nato già come un classico. Tutto se ne può dire, tranne che non verrà ricordato.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ma ovviamente il grande Melancholia (2011) sempre di Lars von Trier e il sublime Persona (1966) di Ingmar Bergman; visionario e perverso è anche lo spettacolare The Cell (2000) di Tarsem Singh mentre Repulsione (1965) e L’inquilino del terzo piano (1976) entrambi di Roman Polanski sono una magnifica (seppur un po’ datata) esplorazione del reticolo inestricabile della psiche umana. Altro onirico e inquietante trip simbolico/misterico è La montagna sacra (1973) di Alexandro Jodorowsky e invece, per il tema del sesso come punizione e violenza, consigliamo Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, sempre che riusciate a vederlo tutto intero…


Scena cult – Oltre il meraviglioso intro, la prima apparizione della cerva nei boschi e la scena dell’aquila che divora il cucciolo morto.

Canzone cult – Ovviamente il leitmotiv del film Lascia ch’io pianga dal Rinaldo di Händel.

mercoledì 7 novembre 2012

THE PERFECT HOST (2010), Nick Tomnay


USA, 2010
Regia: Nick Tomnay
Cast: David Hyde Pierce, Clayne Crawford, Megahn Perry, Nathaniel Parker
Sceneggiatura: Nick Tomnay, Krishna Jones


Trama (im)modesta – John è un rapinatore che ha appena realizzato un colpo (quasi) perfetto. Tutto è andato alla perfezione tranne che la polizia lo ha misteriosamente subito identificato e rintracciato. In fuga disperata dalle forze dell’ordine, John approda a casa di Warwick, sofisticato gentiluomo, spacciandosi prima per un amico di un’amica comune; poi, quando la sua identità è scoperta, minacciandolo di morte. Quello che John non sa è che Warwick è un individuo quasi più pericoloso e folle di lui – un pericoloso schizofrenico che, durante le sue cene sofisticate, popolate da ospiti che sono solo immaginari, sevizia e infine uccide a turno qualche povero malcapitato.
Ma questo è solo l’inizio...


La mia (im)modesta opinioneThe Perfect Host è come un ospite affascinante che venga in casa nostra, ceni con noi, ci intrattenga... ma non capisca quando è il momento di alzare i tacchi e tornare a casa propria. Un film, dunque, che non riesce a giustificare con il suo incredibile fascino la tremenda creanza di mettere troppa carne al fuoco. Già perché se fino a tre quarti della storia si potrebbe gridare al capolavoro, la pellicola, nella sua ultima sezione, esce fuori dal seminato e prende una svolta criminosa/noir che non può che fargli del male. Peccato, ma concediamo questo errore al regista che, al suo primo lungometraggio, ha voluto comprensibilmente strafare.


The Perfect Host è un film incredibilmente originale. Mescola in maniera del tutto inedita la morbosità di un American Psycho con la commedia slapstick più scatenata. Entrambi i personaggi principali, poi, sono dotati di uno scavo psicologico convincente ed equilibrato. Insomma, senza la sua ultima mezz’ora, The Perfect Host sarebbe stata una commedia nera degna di figurare fra gli annali del cinema; peccato si sia rivelata, come i coltelli finti che Warwick tiene appesi sul caminetto, un film senza punta, che non trafigge o taglia, ma finge soltanto. E questo è davvero un peccato: penso soltanto alle mille metafore che la vicenda messa in scena dal film avrebbe potuto rappresentare...


Somma stella della pellicola, che da solo vale tutta la visione del film, è lo scatenatissimo David Hyde Pierce (attore non da poco, ha vinto qualcosa come quattro Emmy per il suo ruolo nella sit-com Frasier) che minaccia di morte, improvvisa balletti, serve da mangiare a ospiti invisibili. Uno dei villains più di culto che abbia mai visto che, se mi si concede il paragone con l’universo di Batman, mescola insieme Alfred e il Joker regalandoci siparietti impagabili come l’allucinatissimo balletto sul tavolo della cucina o la stupenda scena della conga; ma che riesce anche a sprofondare nell’inquietantezza più nera con gli sguardi morbosi alle foto di morti e mutilati, il macabro “album dei ricordi” che elenca vittime e torture e il tremendo filmino che lo vede impiegato in sanguinari atti di masochismo estremo.


Tutto questo il film fa, senza mettere in scena nessuna violenza che non sia strettamente necessaria. Tutto il senso di pericolo e orrore è dato dalle grottesche pantomime di Warwick che serve il caffè a ospiti invisibili, instaura conversazioni sofisticate con amici immaginari e organizza complicate e spassosissime coreografie a ritmo di funky, a uso di un terrorizzato Clayne Crawford. Le scene del balletto, del videotape e della conga sono veri e propri gioielli di cinematografia raffinatissima, mescolati, ahimè, con un finale davvero insufficiente che però, grazie al cielo, non gli fa perdere nemmeno un poco di brillantezza e orrore.


Oltre alla raffinatissima regia di Tomnay e alla sua sceneggiatura (come già detto buona per la maggior parte della storia), il film vanta anche una fotografia e un montaggio meravigliosi e una colonna sonora di prima categoria. Unico peccato del film: i cedimenti dello script. Un film a camera chiusa come questo, ha bisogno di una tensione sempre costante e di voli estremi di originalità. Qui l’originalità c’è (e da vendere, direi) ma la tensione crolla orribilmente oltre che nel finale, in qualche trascurabile punto della pellicola dove lo spettatore, sebbene affascinato, non possa fare a meno di domandarsi: ma dove sta andando a parare tutto questo? Insomma, The Perfect Host è perfetto solo in parte ma non per questo meno degno di una divertita visione.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Altro film di altissimo livello rovinato da un crollo finale è l’australiano Acolytes (2008) di Jon Hewitt. Per due film di altissimo livello che includono ostaggi e aguzzini abbiamo il grande classico Misery non deve morire (1990) di Rob Reiner e la gemma australiana The Loved Ones (2009) di Sean Byrne. Ricordiamo poi l’immortale American Psycho (2000) di Mary Harron e il negletto ma meraviglioso thriller Mother’s Day (2010) di  Darren Lynn Bousman.


Scena cult – Il monologo sugli scacchi, la scena del balletto (non mi stancherò mai di dirlo, da antologia!) e il videotape.

Canzone cult – La gasante Working at the Carwash di Rose Royce e l'aria della Luisa Miller, Quando le sere al placido.

lunedì 5 novembre 2012

YOU DON’T KNOW JACK (2010), Barry Levinson


USA, 2010
Regia: Barry Levinson
Cast: Al Pacino, Danny Huston, John Goodman, Susan Sarandon, Brenda Vaccaro
Sceneggiatura: Adam Mazer


Trama (im)modesta – Jack Kevorkian è un medico patologo che ha visto la madre spegnersi lentamente e dolorosamente sopra un letto d’ospedale. Il ricordo degli orrori del genocidio armeno che i suoi genitori gli hanno trasmesso gli dà una visione del tutto rivoluzionaria della vita e della morte: Jack della morte non ha paura; la morte, per lui, è una liberazione, e poco importa cosa dica o non dica il giuramento d’Ippocrate. Così Jack comincia a esercitare, in maniera alquanto controversa, il suicidio assistito. Molti pazienti corrono da lui per morire e guarire così da una vita di dolori, ma molti altri si scandalizzano e lo condannano. Iniziano così i problemi legali, per Jack, che riesce però a sorpassare indenne ogni accusa, appellandosi al fatto che il suicidio non è illegale. Ma quando il cosiddetto Dottor Morte sarà costretto a somministrare l’eutanasia a un paziente gravemente malato, il dado sarà tratto.


La mia (im)modesta opinione – Dopo lo spettacolare The Sunset Limited, la HBO Films si dimostra ancora capace di produrre un film che, minimizzando sopra i costi di produzione, riesca a guadagnare tutto in qualità: non solo un grande cast (sublime Al Pacino, ma un po’ sacrificata la Sarandon), ma anche una stupenda cinematografia, uno script eccezionalmente maturo e la regia di un grande come Barry Levinson che ha all’attivo film non da poco come Rain Man, Tootsie e Good Morning, Vietnam. La parabola del dottor Jack Kevorkian, che tanti pazienti aiutò con il suicidio assistito, diventa nelle mani di sceneggiatore e regista una specie di agiografia laica, la storia di un martire che si è sacrificato per una giusta causa e che è stato duramente condannato (ma non del tutto ingiustamente) da un gruppo di persone incapaci di motivare le proprie stesse azioni.


Il film, l’avrete già compreso, tracima non troppo malvolentieri nella ruffianeria più sperticata. Insomma, gli autori sono di parte e ci tengono a farlo notare. Le noie che questo non indifferente dettaglio provoca sono attutite (parzialmente) con due geniali espedienti: il primo è il dilemma morale dello stesso Kevorkian, che è il dilemma dello spettatore quando è costretto a posare agli occhi a suicidi assistiti sbrigati alla chetichella, in luoghi nascosti, senza dire niente a nessuno e, in una delle scene più dure della pellicola, addirittura eseguiti con metodi certamente medici ma molto poco ortodossi (quando a Jack viene revocata la qualifica di medico e non può più procurarsi le sostanze chimiche necessarie); il secondo è lo stupendo monologo finale del giudice, sorta di apologia delle leggi in cui con durezza di ferro vengono espressi i valori che l’America dà alla sua legislazione: Kevorkian non è colpevole per ciò che ha fatto ma è stato punito perché ha sfidato un sistema legale che non poteva far altro se non condannarlo. Il peccato di Jack è stata la megalomania.


E la taccia di megalomania (insieme a un aroma canforoso di santo in corsia) aleggia tutta intorno al Jack Kevorkian interpretato così magistralmente da Al Pacino (che si è accaparrato un Emmy, un Golden Globe e uno Screen Actors Guild Award) che non pecca tanto di egocentrismo quanto di non richiesta santificazione: il film dipinge Jack come una sorta di Cristo in terra, venuto a dispensare pietà e pace ma terribilmente frainteso e ingiustamente messo in croce. Il personaggio di Kevorkian, poi, è assai complesso: ispirato quasi da un afflato divino, da un lato; disperato per le strette della coscienza e del buon senso, dall’altro. In mezzo a tutto ciò sta una strana armonia fra pietà e morte, un’esaltazione illuministica, quasi, che conduce a un bene morale altissimo e lungimirante.


E così, con il suo eccedere nell’imparzialità e con le sue non richieste beatificazioni, You Don’t Know Jack rimane un grande film dal retrogusto un po’ plasticoso, un po’ ipocrita nell’etichettare la parte avversa sotto la nomea di una generale bigotteria non veramente spiegata. E anche se il film tenta di riequilibrarsi (non si poteva certo scrivere un inno all’eutanasia) quella pericolosa parzialità rimane sempre ad attossicare l’aria. Spendo le ultime righe di questa mia povera recensione con una considerazione: You Don’t Know Jack è un film che nasce per la televisione. Televisione via capo ma pur sempre televisione. Com’è possibile che la nostra televisione nazionale riesca a produrre solo fiction di scandente qualità e quella via cavo sprechi la sua creatività in film alla fin fine decenti ma molto, molto poco impegnati?


Se ti è piaciuto guarda anche... – Nemmeno a dirlo, Million Dollar Baby (2004) di Clint Eastwood, che è una tappa obbligata, seguito a ruota da Mare Dentro (2004) di Alejandro Amenabàr mentre di simile tema ma diversi risvolti è Il mio piede sinistro (1989) di Jim Sheridan. Sempre sul tema dell’eutanasia, invece, abbiamo il lacrimoso ma pur sempre valido One True Thing (1998) di Carl Franklin. Philadelphia (1993) di Jonathan Demme è un altro film che espone bene il dibattito sulla vita e sulla morte mentre, se si vuole qualcosa di più autoriale, si può guardare al recentissimo Amour (2012) di Michael Haneke. Senza dimenticare poi Dead Man Walking (1995) di Tim Robbins.


Scena cult – La morte di Hugh Gale, malato terminale di enfisema.

Canzone cult – Non pervenuta.

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